«Autoritratto è uno spettacolo comunitario per affrontare anche la mafia in me»

Dopo il debutto a Spoleto, parte dal Teatro Goldoni di Bagnacavallo la tournée del nuovo, atteso, lavoro di Davide Enia che questa volta affronta Cosa nostra. «Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni»

Enia

Dopo il debutto al Festival di Spoleto, lunedì 2 dicembre (ore 21) partirà dal Teatro Goldoni di Bagnacavallo la tournée del nuovo, atteso, spettacolo di Davide Enia dal titolo Autoritratto. Classe 1974, palermitano, Enia è una delle voci più autorevoli e amate del cosiddetto teatro di narrazione italiano. Abbiamo fatto due chiacchiere con lui a proposito di questo Autoritratto, di cui è come sempre autore e interprete, con le musiche di Giulio Barocchieri, le luci di Paolo Casati e il suono di Francesco Vitaliti. Una co-produzione che vede insieme CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Spoleto Festival dei Due Mondi e, ancora una volta, Accademia Perduta/Romagna Teatri. Come per i precedenti spettacoli, anche in questo caso, ci dice, «prima o poi dovrebbe esserci anche un libro». Intanto, lo spettacolo, dedicato al difficile tema di Cosa nostra, è pronto per la tournée.

Partiamo proprio da questo legame Palermo-Romagna. Come nasce l’ormai storica collaborazione con Accademia Perduta e la Romagna?
«Perché fin dai miei inizi mi hanno dimostrato grande affetto e stima, hanno sempre supportato il mio lavoro con grande cura e mi hanno fatto scoprire un territorio bellissimo. Sento i romagnoli molto vicini alle geometrie sentimentali del sud Italia, trovo lo stesso carattere sanguigno».

Nel suo teatro la Sicilia è sempre molto presente. Questa volta si misura con il tema della mafia, di Cosa nostra. Si è sentito in qualche modo in dovere, da siciliano, di affrontarlo?
«Io parlo sempre della Sicilia nel tentativo di raccontare il mondo. Ed è vero, sì, Autoritratto affronta il tema della maa, un tema inevadibile per noi palermitani. E anzi, in particolare parlo di Cosa nostra e del rapporto di totale nevrosi che noi abitanti di Palermo abbiamo avuto nei suoi confronti. Il racconto attraversa gli anni della mia infanzia, ossia gli anni ‘80, e arriva no al 1992, per poi affrontare la morte del piccolo Giuseppe Di Matteo. E di come era chiaro fin da prima che si sarebbe arrivati fino a questo tipo di abiezione (il bambino fu rapito a 12 anni, tenuto prigioniero per tre anni, inne strangolato e sciolto nell’acido, ndr)».

Ma perché affrontare questo tema proprio adesso?
«A questo posso dare più di una risposta. La prima è che, dopo L’abisso, mi sono chiesto: e ora di che cosa parlo? Quali sono le zone di ombra che devo esplorare e cosa può riportarci a uno sguardo comunitario, come era stato quello che offriva quello spettacolo? E così scelgo di prendere di petto uno dei temi più raccontati e abusati e cerco di raccontare il deposito del trauma. Cosa signica vivere in una città segnata da Cosa nostra».

In che senso è un “autoritratto”, come suggerisce il titolo?
«Il primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni tornando a casa da scuola. Queste sono le prime parole dello spettacolo, perché la maa per chi ha vissuto Palermo in quegli anni è come un imprinting. Se non l’avevi visto tu, il morto ammazzato, lo aveva visto tuo fratello o i tuoi genitori. Padre Pino Puglisi (il sacerdote ucciso nel 1993 da Cosa nostra nel giorno del suo 56° compleanno per il suo impegno sociale, ndr) è stato il mio professore, il nostro professore di religione al liceo. Migliaia di ragazzi avevano al massimo un grado di separazione da Falcone e Borsellino. Eppure, c’è sempre stata una rimozione collettiva. L’atteggiamento era quello di negare, sottostimare o mitizzare pur di non affrontare Cosa nostra per ciò che era: uno specchio del patriarcato, del familismo che era dentro le nostre famiglie e le nostre vite. In questo spettacolo ho voluto affrontare innanzitutto la maa che è in me».

Tra gli elementi fondanti, c’è quello di mettere in parole, di smantellare l’omertà come elemento fondante di Cosa nostra.

«Ne L’abisso si trova un consiglio: qualunque cosa ti è accaduta, parlane, perché parlare è liberatorio. Si tratta di scardinare una delle impostazioni culturali della mafia che è la dottrina del silenzio. È una modalità di controllo feroce fuori e dentro le famiglie. Invece abbiamo bisogno di nominare tutto, di connetterci con il nostro desiderio per riuscire a suturare le ferite. È necessario parlare. Se ci pensiamo, nella lotta alla mafia le cose iniziano a cambiare quando Brusca comincia a parlare, inizia a frantumare la corazza del silenzio di Cosa nostra».

Anche in questo caso, accanto alla vicenda autobiografica, c’è stato un lavoro di documentazione?
«Io mi sono avvalso della collaborazione di tre funzionari della Dia, dipartimento antimafia, che mi hanno fatto una lezione di semiotica, mi hanno aiutato a leggere i segni della mia città e storicizzare come loro hanno combattuto la mafia. Ho avuto il privilegio di poter ascoltare e discutere con queste persone sul mio territorio e la mia città e ho finalmente potuto decodificare i codici».

Che cosa racconta ai ragazzi che al tempo di Falcone e Borsellino non erano nemmeno nati?
«Per ora sono stato solo a Spoleto con lo spettacolo, ma la mia sensazione è che anche chi non era nato sa chi sono Falcone e Borsellino, per una sorta di memoria genetica. Il nostro è un paese che mente in maniera organica, ma c’è una memoria che attraversa le generazioni. E oggi i ragazzi vivono in una città che sta di nuovo soccombendo».

Eppure ricordo che non troppo tempo fa si parlava di una rinascita di Palermo sotto molti aspetti.
«Io la mia città per la prima volta l’ho vista a 17 anni, tornando da un viaggio all’estero: per la prima volta mi sono chiesto perché dalle altre parti avevano ricostruito, mentre da noi c’erano ancora i palazzi distrutti durante la Seconda guerra mondiale. Una distruzione che faceva gioco al famoso Sacco di Palermo, negli anni Settanta. Poi, è vero, Palermo è rinata dopo le bombe e con il primo mandato del sindaco Orlando. Ma oggi sta di nuovo vivendo una crisi violentissima per un processo di trasformazione che riguarda tutte le città vampirizzate dai turisti, dove le abitazioni vengono trasformate in B&B. In questo clima di follia non importa più il cittadino, ma tutto è Disneyland. E in tutto questo tra i giovani di Palermo dilaga il disastro del crack, una droga interclassista dal prezzo bassissimo. Mentre per gli adulti continuano a esserci mignotte e cavalli e cocaina».

Eppure la sua scrittura e il suo teatro riescono a essere, come si dice, intergenerazionali…
«Questo lo spero. Il punto è che la letteratura o parla dello sterminato o del piccolissimo, che sono poi la stessa cosa. Autoritratto è anche la storia delle ansie e delle angosce di un bambino che diventa adolescente, delle ragazze a cui non riuscivamo a parlare e del perché il mondo che abitavamo ci era ostile con una violenza manifesta, anche se molti luoghi considerati capitali del decoro non sono meno violenti».

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