Nel monologo interpretato da un ottimo Marco Cacciola, il drammaturgo delle Albe fa dialogare il ‘600 con la contemporaneità e si confronta con questioni immani

De viris illustribus (Le vite degli uomini illustri) è un titolo ricorrente nella sterminata bibliografia classica. Da Cornelio Nepote a Petrarca, da Boccaccio al più recente Achille Campanile, nella storia l’esemplarità delle esperienze ha aperto varchi verso la comprensione degli accadimenti in grado di sconvolgere le epoche e indirizzarle a migliorie future. Tutto questo perché nelle biografie c’è lo straordinario peso delle vite vissute, scontate, a volte tradite e riacquistate, c’è la vita nelle vite altrui: passa per altri gesti, quel gesto nostro di uguale e sintomatico peso nella storia. Marco Martinelli da sempre ha caratterizzato la sua drammaturgia con una forte narratività che attinge dai registri del comico e del tragico per riscrivere la realtà quotidiana tramite la reincarnazione in opere, personaggi, eventi del passato e del presente – da Jarry alla Divina Commedia, dal dramma dei migranti in Rumore di Acque alla vicenda di Marco Pantani, su su fino a Schwab e al progetto sul Don Chisciotte tuttora in atto –, arrivando a un teatro cosiddetto politttttttico (sì, con sette t, un termine coniato da Martinelli stesso negli anni ’80), che non si rinchiude cioè in schemi ideologici.
Non fa eccezione il nuovo Lettere a Bernini, che ha debuttato il 3 dicembre al Teatro Rasi e che vede protagonista uno strepitoso Marco Cacciola, lavoro incentrato sulla figura di uno dei più grandi artisti del Seicento, che poco a poco, in scena, si avvicina vertiginosamente a noi, ai nostri travagliati tempi, a certe dinamiche mai sopite. La diegesi dello spettacolo si riferisce a un giorno ben preciso del 1667, il 3 agosto, quando un Gian Lorenzo Bernini decisamente irato si trova nel suo studio (l’ambientazione unisce elementi antichi e contemporanei) a imprecare contro Francesca Bresciani, intagliatrice di lapislazzuli che ha lavorato per lui nella Fabbrica di San Pietro e che ora lo accusa senza mezzi termini, di fronte ai cardinali, di non pagarle il giusto prezzo per il suo lavoro. Da qui parte il monologo dell’attore in scena, un eloquio che è sia narrazione esterna che racconto in prima persona, quasi a voler dare connotati onirici all’azione (a cui contribuiscono non poco i ficcanti interventi sonori di Marco Olivieri e le luci di Luca Pagliano), un profluvio di parole con cui Bernini, tra italiano e napoletano, ci dice chi è, ossia un personaggio pieno di contraddizioni, un genio, certo, ma anche un uomo capace di violenze (che stava per uccidere il fratello Luigi per una questione amorosa) e di prepotenze, dall’ego smisurato, conscio della propria grandezza e pronto a soddisfare le richieste dei protettori, papi e potenti vari, insomma il re artistico della Roma Barocca.
Dunque ecco che questo Seicento inizia a parlarci, la protezione e il favoritismo dei potenti, anche in ambito artistico, non ci suonano così desueti, l’arroganza dell’artista affermato nei confronti dei colleghi non sembra una questione negletta, i ricatti economici li sentiamo tutti i giorni. E poi c’è la nemesi di Bernini, Francesco Borromini, il “longobardo”, il puro, l’introverso, «con quella smania di uscire dalle regole», che però «è bravo a disegnare, sì». Borromini che inizialmente doveva essere il protagonista del testo di Martinelli, dopo che il drammaturgo e regista rimase folgorato dalla visita, insieme a Ermanna Montanari (con cui condivide l’ideazione dello spettacolo), alla chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane di Roma, edificata a opera dell’artista ticinese. «L’amore per Bernini nasce paradossalmente dal suo grande rivale, Francesco Borromini – spiega Martinelli –. Poi a un certo punto mi sono fatto rapire dalla grandezza di Bernini e il primo pensiero è stato quello di creare un dialogo fra i due. Ma non c’era spazio per entrambi sul palcoscenico, per cui Bernini alla fine s’è preso la scena, perché oltre a essere pittore, scultore, architetto era anche uomo di teatro».
Non a caso a un certo punto Bernini/Cacciola trasforma il suo studio in sala prove per riprendere insieme a garzoni e allievi il Coviello (una maschera della tradizione napoletana), ma ancor più incisiva, per quanto non immediata, è l’apparizione di tre grandi schermi alle spalle del protagonista sui quali scorrono le immagini del concerto che Furtwängler diresse nel 1942 alla fabbrica dell’AEG in Germania, corredate dalla scritta in latino Hoc theatrum hic labor est (ossia “questo teatro è qui per lavorare”), apparizione che ritengo l’essenza estrema dello spettacolo: in certe condizioni, gli artisti, come si devono comportare? Fino a che punto l’arte può ritenersi libera da ogni potere e pressione? Anche di questo Martinelli ha parlato più volte, scrivendo cose che ti staccano la pelle di dosso ma sempre con una lingua comprensibile a tutti. L’arte è per definizione un rischio, è ciò che si contrappone tra noi e la negazione di chi abbiamo davanti, e Lettere a Bernini è un grido d’amore affilato e profondissimo nei suoi confronti. E quando, nel finale, Bernini riceve la notizia della morte di Borromini, suicidatosi appunto il 3 agosto 1667, è la pietas rivolta sia all’uomo che all’artista a prevalere. «Si caca sangue per catturare una luce. Scultura o architettura, è lo stesso/La luce di un volto/Che gode, che soffre/Che spasima, che trema».
In replica al Rasi fino al 15 dicembre
Lettere a Bernini sarà in scena al Teatro Rasi fino a domenica 15 dicembre (con pausa lunedì 9) alle ore 21, tranne la domenica (ore 15.30). Allo spettacolo è collegata Intorno a Bernini, serie di presentazioni e letture. Il 7 dicembre (ore 18) al Rasi Marco Martinelli presenta il suo omonimo libro Lettere a Bernini (Einaudi), l’8 dicembre (ore 18), sempre al Rasi, ecco
La commedia di Filodosso, ovvero: le fatiche della Virtù, lettura teatrale della Philodoxeos fabula di Leon Battista Alberti. Introduzione di Alberto Giorgio Cassani, voce e regia di Gianfranco Tondini, mentre il 14 dicembre alla biblioteca Classense si presenta il libro A questo serve il corpo (Bompiani), di Roberta Scorranese.