
Poesia di presenza, pronunciata per l’ascolto. È questo il rito sonoro di Mariangela Gualtieri, poeta e drammaturga che consegna al pubblico i suoi versi, facendoli vivere attraverso la voce, il corpo, la musica. Una forma intermedia fra lettura e spettacolo, dove si uniscono i due amori di Gualtieri, la poesia e il teatro, mondi continuamente in dialogo. Con Naturale sconosciuto l’artista darà vita, sul palco del teatro comunale di Russi (13 dicembre, ore 20.45), alle parole della sua ultima raccolta poetica, Ruvido umano (Einaudi 2024).
Le radici dell’esperienza teatrale di Gualtieri, dopo gli studi in architettura allo Iuav di Venezia, sono da ricercarsi all’interno del Collettivo Valdoca, gruppo cesenate che negli anni ’70 fonde teatro e musica, antenato del Teatro Valdoca, fondato nel 1983 da Gualtieri stessa e dal regista Cesare Ronconi, suo compagno artistico e di vita. Lo spettacolo d’esordio, Lo spazio della quiete (1983), intersecando teatro e danza, mostra già la fusione dei diversi linguaggi artistici come tratto distintivo della compagnia. La ricerca di Gualtieri e Ronconi si arricchisce grazie all’incontro con alcuni dei grandi maestri del teatro novecentesco come Kantor, Grotowski e Carmelo Bene. È l’incontro con un poeta, tuttavia, a segnare una svolta nel percorso personale di Gualtieri. Nel 1985 Milo De Angelis e la Valdoca inaugurano una Scuola di Poesia. Fortini, Luzi, Loi, Rosselli, Merini sono solo alcuni degli ospiti protagonisti di quelli che saranno incontri decisivi per l’artista.
Con la poesia Mariangela scopre una nuova vocazione, che dal palco la porta verso la scrittura di versi, da attrice a drammaturga della compagnia Valdoca. Per la scena, inizia scrivendo lo spettacolo in tre atti Antenata (1991-93), che dà nome anche alla sua prima raccolta poetica, edita e pubblicata da Crocetti nel 1992. Fuoco centrale e altre poesie per il teatro (2003) è una rosa selezionata di versi scritti per il teatro che sancisce l’inizio delle pubblicazioni per Einaudi, ma è con la raccolta Bestia di gioia (2010) che Gualtieri firma il suo maggiore successo poetico e l’inizio delle sperimentazioni con i riti sonori. Bello mondo (2015), Nostalgia delle cose impossibili (2018) e Il quotidiano innamoramento (2020) portano in scena un ritrovato legame fra verso scritto e oralità, sapientemente guidato dalle luci di Cesare Ronconi, che curerà anche il prossimo rito sonoro ravennate.
Delle origini della scrittura di Gualtieri e della sua ultima pubblicazione parliamo direttamente con la poeta.

Oltre a scrivere poesie, lei si occupa di drammaturgia. Quali sono le consonanze e le differenze fra questi due tipi di scrittura? Hanno una fonte d’ispirazione comune?
«Nel caso della drammaturgia, la mia scrittura è sempre stata ispirata dalla scrittura registica di Cesare Ronconi. Credo di avere scritto i miei versi più riusciti proprio in teatro, e grazie a quel modo particolare di lavoro con gli interpreti messo a punto da Ronconi. Al di fuori di lì c’è la miriade di esperienze e incontri che il vivere ci propone ogni giorno e che, quando siamo con le antenne ben attive, possono far nascere in noi la parola poetica».
La sua poesia è legata alla magia fonica che investe il verso quando viene pronunciato di fronte a un pubblico. Ritiene che il “rito sonoro” aggiunga valore ai versi e che l’ascolto di altre persone cambi quello che lei scrive?
«Non lo cambia ma, quando tutto va come deve, sicuramente si potenzia. In pandemia credo che quasi tutti abbiano fatto esperienza della poca energia che veniva da lezioni o incontri fatti on line. La presenza, e tanto più l’essere in tanti attenti su un identico punto, aggiunge vitalità ai presenti e alle varie espressioni che qualcuno propone».
Nelle prime poesie della sua ultima raccolta, Ruvido umano, emerge il ritratto di un mondo malato, che sembra essersi discostato dal corso naturale delle cose, un mondo in cui i figli muoiono, dove non c’è più spazio per il tempo ma solo per la morte. Lei stessa usa la parola “normalità”: cosa si può intendere con essa e come ritornarvi?
«Penso che la normalità non esista. L’eccellenza dovrebbe essere la normalità. In quella poesia uso questo vocabolo per indicare una certa assuefazione ai quotidiani bollettini di morte dei notiziari. Voglio porre l’accento sull’incapacità di indignarci di fronte all’orrore e così l’orrore pare a volte divenire la “normalità”. Con la conseguente caduta della pietà, della compassionevolezza, della fratellanza, tutti sentimenti a cui ci si educa».
Nella poesia L’animale che siamo parla di come gli uomini posseggano un animale interiore, che lei identifica nel dolore. Come riuscire ad accoglierlo? Come addomesticare il nostro animale interiore senza averne paura?
«Non è di un animale interiore che parlo, di qualcosa che si aggiunge a noi, ma di noi umane e umani come animali. Noi siamo animali, ben strani animali. E dunque qualcosa in noi avverte il pericolo di specie. Abbiamo antenne un po’ assopite ma qualcosa nel profondo sente e ragiona in termini di specie, come fanno tutti gli altri animali. Noi ne siamo piuttosto inconsapevoli e, nel nostro antropocentrismo, non pensiamo certo di essere come gli altri animali».
I figli e gli animali emergono nelle sue poesie come presenze luminose che aiutano a ricentrare il cammino, a porre domande. In che modo potremmo definire gli animali e i bambini dei maestri per noi umani?
«Bambini e animali ci sono maestri nel loro semplice accogliere la vita, maestri di gioia, chi ha un cucciolo in casa lo sa. Maestri di attenzione e di pienezza. E di tanto altro».