Se si potesse riassumere il percorso artistico di Yuri Ancarani in due aggettivi sceglierei contenuto e smisurato. L’economia dei tempi è dote rara in chi fa cinema, ormai la durata media di un film si attesta attorno alle due ore, mentre i lavori di Ancarani (che viene dal videomaking) spesso sono contenuti entro l’ora ma densi di suggestioni sensoriali. Allo stesso tempo le sue opere sono fuori misura per il cinema, sia in senso letterale (hanno bisogno di grandi spazi per essere fruite al meglio, come il Pac di Milano, teatro ideale per le sue rappresentazioni) sia figurato (i suoi film non terminano in sala, ma ci si ripensa anche dopo la conclusione).
A metà tra cinema documentario e arte contemporanea è anche il suo ultimo lungometraggio, Il Popolo delle Donne (2023), che dopo la presentazione al Festival del Cinema di Venezia e un tour in diverse città italiane, torna a Ravenna. Il film, della durata di 60 minuti – in cui la psicoanalista Marina Valcarenghi evidenzia il rapporto tra la crescente affermazione sociale della donna e l’aumento della violenza sessuale maschile – sarà proiettato al Cinema Mariani domenica 16 marzo alle 10.30 nel prossimo matinée (formula colazione + cinema dalle 9.30) e sarà introdotto dallo stesso Ancarani (info a questo link). Ne abbiamo parlato con l’autore.

Il tema della violenza sulle donne è stato trattato spesso al cinema e in televisione anche attraverso i cosiddetti true crime, con risultati alterni. Tu che formula hai scelto?
«Ho delegato il pensiero ad una persona con una preparazione superiore, Marina Valcarenghi, psicoterapeuta e psicoanalista che ha lavorato nei reparti di isolamento dei penitenziari di Bollate e Opera, con detenuti in gran parte condannati per reati sessuali. Il progetto è nato perché c’è stato questo incontro. Volevo però evitare l’approccio morboso di molti film che trattano l’argomento».
Un tema così importante può anche turbare e spaventare.
«È un tema “pericoloso”. In Italia se ne parla molto, c’è dibattito, ognuno dice quello che pensa ma senza dare reali informazioni. Mi sono chiesto come poterlo rappresentare e ho trovato la chiave quando ho conosciuto Marina. Lei è stata protagonista del Movimento underground e si è battuta fortemente per i diritti delle donne dagli anni Settanta. Ho pensato fosse necessario dare spazio ad una figura di spessore, con un punto di vista psicanalitico, non ideologico, che andasse oltre la semplice opinione».
Quali rischi hai dovuto affrontare?
«Sapevo che sarei andato incontro a problemi anche ideologici: un regista che mette la sua professionalità al servizio di una voce, ponendola su un piedistallo, per darle la miglior attenzione possibile. Ma ho voluto fare la mia parte, lasciare una traccia insieme alla mia squadra di lavoro, compresa Caterina Barbieri con le sue musiche. Un documento che è una specie di manifesto di Marina Valcarenghi e continuerà ad essere utile per chi studia l’argomento e vuole liberarsi dagli stereotipi».
Hai accompagnato il film in tante città. Quali reazioni hai trovato?
«In molti appuntamenti era presente Marina, che però ha 85 anni, per questo era necessario che anche io seguissi il film. Ho viaggiato per l’Italia, isole comprese e ho riscontrato un disappunto costante, soprattutto tra le giovanissime donne e gli uomini anziani, due realtà così diverse in accordo… nel disaccordo. L’ho trovato molto interessante. Ci sono state anche tante emozioni, pianti, spettatrici che mi ringraziavano per l’intensità e l’utilità del film. Molte madri hanno portato le figlie a rivederlo».
Nei tuoi film cerchi di far vivere allo spettatore un’esperienza che rimanga oltre la visione. Che posto occupa il cinema nel tuo immaginario e come si integra con tutto il resto?
«Il cinema è il medium principale che ho scelto per lavorare su immagini potenti, simboliche, per ridare alle immagini stesse il desiderio di essere interpretate. Mi interessa anche guardare le cose che conosciamo con occhio diverso e per questo non do importanza solo al soggetto ma anche al background, all’architettura, alla musica: l’immagine audiovisiva coinvolge tutti i sensi e deve essere in equilibrio con le sue componenti».
A cavallo tra il 2015 e 2016 sei stato nel posto più ricco del mondo (Qatar per The Challenge) e in quello più povero (Haiti per Whipping Zombie). Cosa ricordi?
«È stata un’esperienza molto intensa. Sembrerò banale ma ho trovato tanta ricchezza nel paese più povero e tanta povertà nel paese più ricco».
Quali sono le città della tua vita?
«Ravenna, naturalmente, dove ho ancora la residenza. Sto molto bene e ci torno quando devo pensare, scrivere, fare il montaggio dei miei film. E per rilassarmi. Qui ho i miei posti del cuore, come la Ca’ De Ven».
Poi c’è Milano, dove hai scelto di vivere.
«Viaggio molto, ho bisogno di una città dove ci sia un aeroporto efficiente. Milano poi reagisce molto bene ai cambiamenti, mentre le piccole città aspettano, ferme, che le cose tornino come prima. Ma spesso non succede, per cui bisogna imparare a surfare tra i cambiamenti. Milano è molto interessante da questo punto di vista».
Come Venezia, che sembra un luogo fermo nei secoli ma è sempre in movimento.
«Venezia è unica, ci ho girato uno dei film a cui sono più legato, Atlantide. È una città di riferimento per tutto il mondo, siamo fortunati ad averla in Italia. Chiunque lavori in ambito culturale ambisce a presentare le proprie opere a Venezia. Mi piace passare un po’ di tempo anche a Los Angeles, dove mi succede sempre di pensare in grande, poi quando torno mi vergogno un po’ di quello che ho pensato quando ero lì. E allora mi chiedo: “E se fossi rimasto là?”».
A proposito di Los Angeles, hai seguito gli Oscar?
«Non ho seguito né gli Oscar né la Settimana della Moda».
Perché?
«Il cinema era chiamato settima arte, oggi è diventato solo intrattenimento. Dovrebbe ricordarsi di essere “immagini in movimento”, invece è così statico, completamente proiettato nel passato. A me il cinema interessa, non mi interessa l’intrattenimento».
Sean Baker, ritirando l’Oscar per Anora, ha detto che mai come oggi è necessario andare a vedere i film in sala per evitare che il cinema scompaia. Come vedi il futuro?
«La sala cinematografica deve acquisire ancor più consapevolezza di essere un luogo di cultura e non un posto da consumo usa e getta. Vedere un film a casa è diventato comodissimo ma lo spettatore non dovrebbe essere più grande dello schermo che sta guardando. Il cinema è un’esperienza unica e irripetibile, come sentirsi piccoli di fronte a immagini gigantesche, che quasi ti divorano. La sala deve essere un luogo visionario, sempre più accogliente per le nuove generazioni, stare al passo con i tempi. Anche i gestori dovrebbero saper surfare tra i cambiamenti».
Parlando di visionarietà, quale è il posto più pazzesco in cui hai girato?
«In una camera iperbarica a 100 metri di profondità al largo di Ravenna per Piattaforma Luna, un film su un gruppo di operatori tecnici subacquei. Volevo seguire da vicino questo lavoro così estremo, per tre giorni abbiamo vissuto nella camera iperbarica sotto pressione. Era il 2011, un’esperienza davvero forte. Il film dura 25 minuti e sarà presto visibile su Mubi».
A che cosa stai lavorando in questo momento?
«Oltre all’attività di docente alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano sto lavorando a una monografia sui miei lavori che sarà anche una mostra. È la seconda, dopo “Lascia stare i sogni”, che prendeva il nome da una frase del protagonista di Atlantide. Di quel volume (300 pagine con oltre 700 illustrazioni) saranno disponibili alcune copie domenica 16 marzo al Cinema Mariani prima e dopo la proiezione de Il Popolo delle Donne».
* Matteo Papi è il direttore artistico del Cinema Mariani