Anna Leonardi e Michele Marco Rossi sono i due nomi nuovi che la presidente onoraria del Ravenna Festival, Cristina Mazzavillani Muti, ha lanciato un po’ a sorpresa alla fine della presentazione pubblica della nuova edizione, sabato 8 marzo, dal palco del teatro Alighieri: «Loro dovranno diventare il futuro del Ravenna Festival», ha dichiarato senza mezze misure Mazzavillani, rivolgendosi esplicitamente anche al sindaco Fabio Sbaraglia presente in platea. Di fatto, secondo i piani della fondatrice, dovranno diventare loro i nuovi direttori artistici, prima affiancando e poi prendendo il posto degli storici Franco Masotti e Angelo Nicastro, per un ricambio generazionale divenuto inevitabile, alla vigilia della 36esima edizione.
Il violoncellista Rossi (classe 1989) e l’oboista Leonardi (classe 1990) si erano già affacciati nell’organizzazione del Festival l’anno scorso, nella direzione artistica della “Chiamata alle arti” promossa dalla stessa Mazzavillani Muti, una sorta di happening che ha portato al Museo Classis giovani e giovanissimi artisti (o aspiranti tali) provenienti da tutta Italia.
Quest’anno sono invece alla guida del progetto dedicato al canto, Cantare Amantis Est: domenica 1 e lunedì 2 giugno al Pala De André cori di tutt’Italia prenderanno parte a due giorni di prove e lezioni con la guida di Riccardo Muti. Ne abbiamo approfittato per conoscerli meglio.
Presentatevi in poche righe.
A.L.: «Sono Anna Leonardi e sono sostanzialmente una musicista, che ha avuto la grande fortuna di fare parte dei Cherubini, come corno inglese e oboe. Nel 2017 ho organizzato il mio prima festival musicale, in Umbria, e l’esperienza mi è piaciuta a tal punto da conseguire un master in management musicale. Successivamente ho ottenuto il coordinamento del festival Milano Musica, nato in collaborazione con il Teatro alla Scala. Da lì mi sono occupata principalmente dell’aspetto manageriale di questo mondo: suono ancora, ma purtroppo non quanto prima per mancanza di tempo. Inoltre, da circa un anno e mezzo sono responsabile della casa editrice del gruppo Sugar Music».
M.M.R.: «Sono Michele Marco Rossi, violoncellista, ma ancora oggi ho molti dubbi nel definirmi tale. È come se ogni giorno mi immaginassi in un ruolo diverso, con una vita e un’identità artistica differente. A circa vent’anni ho capito che l’aspetto che amo di più della musica e dell’arte è proprio quello della contemporaneità, forse perché rispecchia questo continuo cambio di identità, quella possibilità di essere tante cose diverse allo stesso tempo, anche contraddittorie tra loro. Da quel giorno mi ci sono dedicato completamente».
Cos’è per voi la musica?
A.L.: «Tutto, non lo dico per retorica, ma perché nella mia vita non ho mai fatto altro. A due anni e mezzo seguivo i miei genitori mentre suonavano il piano, poco dopo ho iniziato a suonarlo io. Poi il periodo nella banda del paese e l’iscrizione in conservatorio a 12 anni, per studiare oboe. È qualcosa di totalizzante, quando mi guardo indietro mi accorgo di non aver mai fatto altro se non con la musica o per la musica».
M.M.R.: «Non è facile rispondere. Mi sembra un qualcosa di perfettamente organico con il mio stare al mondo. Come guardare qualcosa o come pensare. La musica è un modo di vivere se stessi e gli altri, qualcosa di diverso dall’atto di suonare o dalle note scritte su un pentagramma: è un continuo trasformarsi. Quando è sincera poi, è un momento di grande pace».
Cos’è per voi il Ravenna Festival?
A.L.: «In primis una grande e continua scoperta. Lo conoscevo come un festival importantissimo, una meta a cui si arriva difficilmente. Poi ho avuto modo di viverlo, da spettatrice e da musicista con l’Orchestra Cherubini, ed è stata una grande emozione. Lo vedo anche come una grande opportunità, un luogo dove i muri diventano quadri e le armi diventano arti, in un’ottica di apertura, condivisione e cultura nel senso più alto della parola».
M.M.R.: «Un laboratorio incredibile. Un’idea di futuro migliore, una speranza. Una grande casa per gli artisti».
Come immaginate il Festival tra 20 anni?
A.L.: «Come un luogo di incontro e conoscenza, di scambio di idee e costruzione. Uno spazio che possa regalare una possibilità ai giovani, ma anche un momento di crescita musicale e culturale internazionale. Dai racconti di Cristina ho capito che la “possibilità” è un tema centrale del festival, e mi piace pensare che tra vent’anni sarà ancora cosi».
M.M.R.: «Sempre come una casa per artisti, ma ancora più grande. Anche come prova del fatto che l’essere umano può esprimersi in maniere meravigliose, e che non è vero che la guerra è parte della nostra natura, anche se ce ne sono state tante, e ancora continuano…».
Qual è stata la prima cosa che avete pensato quando Cristina Mazzavillani vi ha indicato come il futuro di questo Festival?
A.L.: «“Oddio, e adesso che faccio?”. Ho provato un grande senso di responsabilità e tanta paura, ma quella paura bella, che fa venir voglia di mettere subito a terra mille idee. Il secondo pensiero invece è stato “Quanto dovrò studiare adesso?”, Ci sono più di trent’anni di storia del Festival da studiare per poter fare qualcosa di nuovo domani. È un grande onore, anche se confesso che a volte ho ancora paura di non meritarmelo».
M.M.R.: «Ho confidato a Cristina che a volte mi chiedo se lei esista veramente. È troppo presto per me per riuscire a comunicare il mare di emozioni che ho dentro. Una cosa però la so: Cristina mi ha cambiato fin dal nostro primo incontro, mi ha insegnato tanto e reso migliore. Spero di poterle restituire il tesoro interiore che mi ha ispirato, e forse so come fare: dedicandomi a dare indietro agli altri quanto di bello ho ricevuto. Me lo ha insegnato lei».
Ci descrivete in poche parole il progetto di quest’anno, Cantare Amantis Est?
A.L.: «Come prima cosa vorrei ringraziare il maestro Muti per aver accettato di nuovo la nostra chiamata, sposando pubblicamente la nostra causa. Per il resto, si tratta di un progetto meraviglioso: l’opportunità di lavorare con il Maestro è una fortuna che dovrebbero avere tutti, senza limiti di età e senza un bagaglio di conoscenze pregresso. Questa masterclass parte dai cori verdiani per dare alla cittadinanza, alle voci bianche, ai cori di qualsiasi natura, agli studenti dei licei musicali di tutta Italia la possibilità di capire a fondo cos’è il suono della parola».
M.M.R.: «È un’occasione unica sotto tanti punti di vista: poter cantare Va, Pensiero diretti da Riccardo Muti è qualcosa che ci si porta dentro per tutta la vita; creare un unico grande coro senza distinzioni di età, provenienza, livello, formazione… anche. Riccardo Muti in quei giorni ci guiderà nella comprensione del significato del “cantare insieme”. E poi Cantare Amantis Est dà lavoro a tanti artisti giovanissimi, regala un’opera d’arte alla città, fa suonare di nuovo l’organo del Duomo, crea spazi di incontri e condivisione. È un contesto in cui partecipare non significa solo applaudire qualcuno, ma mettersi in gioco, conoscersi meglio, incontrare gli altri e crescere insieme. Io stesso non vedo l’ora di partecipare».
Qual è il vostro sogno, da direttori artistici? Un progetto in cui vorreste misurarvi?
A.L.: «Trovare il sistema per dare spazio alle nuove creatività, e al tempo stesso fare in modo che la dimensione dei giovani alla scoperta del mondo musicale si rapporti con quella con dei grandi nomi dell’arte. Vorrei che l’innovazione, con uno sguardo rivolto all’antico, possa restare sempre il fulcro del Festival».
M.M.R. «Il mio sogno è rendere la contemporaneità un patrimonio comune, da seguire con passione, responsabilità, interesse, coinvolgimento. Sentire che parla a tutti noi. Vorrei sostenere i compositori e far crescere l’entusiasmo e la curiosità tra il pubblico. Come se fosse ogni volta l’attesa di una nuova Opera di Verdi o di un nuovo disco di De André. Una curiosità sentita, partecipata, viva».
Il concerto (da spettatori) della vostra vita?
A.L.: «Quello del Maestro Muti con la Wiener Philharmoniker, anche se non vorrei sembrare monotona….»
M.M.R.: «Il mio primo Rigoletto. Non era una grande produzione, ma da quel giorno la mia vita è cambiata».
Il concerto (da protagonisti sul palco) della vostra vita?
A.L.: «Me ne vengono in mente due: quando ho suonato il solo del Guglielmo Tell con il corno inglese in diretta Rai, per il concerto di Natale del Senato, e la Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” suonata alla Rocca Brancaleone in periodo di pandemia, con l’orchestra distanziata di due metri e un pubblico piccolissimo ad ascoltarci».
M.M.R.: «Lasciamo che questa vita passi, poi ne riparleremo».
Tre compositori preferiti?
A.L.: «Verdi, Palestrina, Stravinsky».
M.M.R.: «Verdi, Xenakis, De André».
Una persona che vi ha cambiato la vita e perché
A.L. «Dirne una sola è troppo difficile, perché sono tante le persone che hanno contribuito al cambiamento della mia vita: Riccardo Muti, per tutti i suoi insegnamenti, ovviamente Cristina Mazzavillani, perchè questa nomina da sola è un cambio di vita radicale. Però vorrei citare anche Andrea Mion, che mi ha fatto scoprire l’oboe, e Danusia Romanini, una grande professoressa del mio liceo. Senza mio nonno poi, e i suoi insegnamenti di solfeggio, oggi forse non saprei leggere la musica. Ce ne sarebbero anche altre, ma ne avevate chiesta una e io ne ho già dette troppe».
M.M.R. «Diverse persone. Una l’abbiamo nominata prima. Poi Giuseppe Taddei, Ivano Fossati, Gianfranca Privitera e Renata Scognamiglio, le mie professoresse del liceo. Ognuno di loro mi ha regalato un tesoro che porto sempre con me. Ma mi avevate chiesto di indicarne solo una, e la risposta la so senza dubbi: mia moglie, Anna. Ma le motivazioni non le dico qui, tanto lei le sa tutte».