domenica
15 Giugno 2025
intervista

Ribellarsi senza mettersi in mostra. “Del coraggio silenzioso” di Marco Baliani

Lo spettacolo porta in scena il 16 giugno al teatro Alighieri cinque racconti. «Voglio trasmettere l'inquietudine»

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Doveva essere un reading allestito per una sola occasione; è diventato uno spettacolo che gira dal 2016 e cambia ogni volta il suo tappeto sonoro. Del coraggio silenzioso di Marco Baliani sarà in scena il 16 giugno alle 21 al Teatro Alighieri, con un nuovo accompagnamento musicale scritto apposta per il Ravenna Festival.

Marco Baliani, che cosa significa “coraggio silenzioso”?
«È la forma di coraggio di chi non aspira a essere riconosciuto come un eroe. È il gesto di un essere umano che sente l’obbligo di aiutare il prossimo, senza pretendere di avere spettatori né provare il bisogno di essere elogiato. È una forma di dignità etica. Il coraggio silenzioso non presuppone una tempra guerriera e non si aspetta ricompense o esaltazioni; bensì agisce in modo sommesso e spontaneo, per pura necessità».

Perché ha deciso di parlarne?
«Nel 2016 il Comune di Bergamo mi ha chiesto di lavorare sulla parola “coraggio”, nell’ambito delle celebrazioni per il suo patrono. Ogni anno la città assegna una parola diversa a un artista, chiedendogli di declinarla a modo suo, e quella volta è stata commissionata a me. Il coraggio inteso come atto eroico non mi interessava, perciò ho preferito accostargli l’aggettivo “silenzioso”. Ho scritto un testo che è diventato un reading, accompagnato dalle note per violino scritte dal compositore Mauro Montalbetti. Doveva essere un evento unico, invece mi è stato chiesto di replicarlo in altri contesti. Quindi ho iniziato a portarlo in giro, sempre con musicisti diversi che trovavo sul posto, e a cui chiedevo di improvvisare sulla base delle ispirazioni provenienti dal testo».

Quale musica la accompagnerà al Ravenna Festival?
«Per questa replica ci sarà un ritorno alle origini, con le musiche di un altro compositore, Mirto Baliani, eseguite dal vivo da un ensemble di artisti molto diversi tra loro: Cristiano Arcelli al sax e clarinetto basso, Giacomo Gaudenzi al violoncello, Francesco Tedde alla chitarra e modulari; oltre allo stesso Mirto che si occuperà di harmonium e campionatori. Non si tratterà di musica di accompagnamento, come nelle altre repliche, bensì di una drammaturgia sonora pensata appositamente per lo spettacolo».

Di cosa parla il suo testo?
«Si tratta di cinque racconti su altrettanti esempi di coraggio silenzioso, più o meno noti. Rosa Parks, la donna nera che rifiutò di cedere il posto a un bianco sul bus; Palden Gyatso, il monaco tibetano che testimoniò all’Onu le torture e i massacri compiuti dalla Cina in Tibet; Zenzeri Abdelbasset, un pescatore tunisino che ha salvato alcuni migranti in mare; Khaled al-Asaad, il direttore del sito archeologico di Palmira che si è opposto all’Isis mentre distruggeva i monumenti storici; e Ilse Weber, poetessa e insegnante uccisa ad Auschwitz. Ogni racconto ha un linguaggio diverso, dal monologo al dialogo, dall’epica al reportage giornalistico».

Perché è importante, oggi, parlare di coraggio silenzioso?
«Spero sempre che questi racconti siano come semi che volano nel vento, pronti a diventare piante. Oggi l’idea di ribellarsi è associata alle raccolte firme online, ai post sui social, al clamore del gesto più che al gesto stesso. Tutto ciò è comprensibile, ma trovo molto più interessante l’esempio di chi riesce a portare avanti una battaglia da solo e senza mettersi in mostra. Con i miei cinque racconti, cerco di trasmettere questa idea. Che è poi la stessa di Albert Camus quando, ne Il mito di Sisifo, parla della ribellione come gesto per sfidare il mondo e se stessi, correndo il rischio senza ambire al potenziale ritorno che si potrebbe ottenere».

Con questo e gli altri suoi spettacoli, è sempre impegnato a raccontare le ingiustizie e le storie di chi sta ai margini. Cosa desidera trasmettere al pubblico col suo teatro?
«L’inquietudine. Penso che sia il migliore sentimento che il teatro possa lasciare. Cerco sempre di generare riflessioni, pensieri, critiche e forme di spavento; anche quando racconto una fiaba popolare. Lo spettatore non dovrebbe mai andarsene via soddisfatto e nemmeno dovrebbe sentirsi in pace con se stesso, solo perché è andato a vedere uno spettacolo che lo fa sentire dalla parte dei buoni. Questo non ci assolve affatto. È una modalità di indignazione che non serve a nulla».

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