Un gioco, quasi una partita a scacchi, una tenzone con il lettore, come sempre all’insegna della raffinatezza e dell’ironia è quella che ingaggia ancora una volta Eugenio Baroncelli, nato a Rimini nel 1944 ma da tempo ravennate, già docente al liceo Oriani, ma soprattutto già prolifico autore per Sellerio.
Il cielo più pietoso è quello vuoto. Quindici voci di un’improbabile autobiografia è l’ottava raccolta pubblicata dal prestigioso editore palermitano. Raccolte che, come sanno bene gli estimatori di Baroncelli, sono caratterizzate da testi brevi e brevissimi, in cui emerge la vastissima cultura letteraria dell’autore che è stato non a caso più volte associato al grande Borges. A quattro anni dall’ultimo Libro di furti. 301 vite rubate alla mia, l’ex insegnante che ci ha raccontato la vita di mille e più personaggi tra veri e inventati ci consegna dunque quello che dovrebbe essere, almeno a leggere il sottotitolo, un libro autobiografico. Ma neanche a dirlo, nulla ha a che fare con l’autofiction che da anni ormai domina il mercato editoriale. Baroncelli si conferma infatti lontano da mode e tendenze e sempre più difficile da definire e inquadrare. In questo ultimo volume, a ricordi che sembrano davvero tali si mescolano citazioni, rimandi, sogni, lettere, elenchi. Come definirlo dunque? E quanto ci interessa definirlo? Non molto, per la verità. Nel senso che davvero non è la curiosità per la realtà dei fatti che muove la lettura, ma piuttosto il gusto per il calembour, il gioco di parole, l’eleganza della frase che spariglia qualsiasi aspettativa.
Se per alcune raccolte passate, come Libro di candele. 267 vite in due o tre pose, potevamo forse parlare di miniature, qui siamo più all’acquerello in alcuni racconti o alla pennellata rapida in pagine che sembrano appunti, brevi accenni di vacanze, viaggi, isole, pensieri, divagazioni libere attraversate da quel costante sguardo sornione e beffardo che è parte della cifra stilistica di questo autore che non ha ancora finito di stupire.