Pubblichiamo volentieri (a questo link il Giorno 0) una sorta di diario del nostro appena ventenne collaboratore Ernesto Moia da Matera, città che ospita la prima tappa del Progetto Hamelin di Ravenna Teatro-Teatro delle Albe (in collaborazione con Iac – Centro Arti Integrate e con il supporto della cooperativa sociale Il Sicomoro). Per tre giorni, la celebre città in Basilicata sarà attraversata da riprese cinematografiche e azioni performative nei luoghi pubblici, con protagonisti oltre 200 bambini e ragazzi dai 7 ai 17 anni provenienti da Basilicata, Emilia-Romagna e Lazio, di cui la maggioranza dalle scuole di Ravenna. Il racconto guida è la fiaba de Il Pifferaio di Hamelin, riletta come metafora di una società che tradisce le nuove generazioni e ne paga il prezzo. Al centro, una domanda semplice e radicale: cosa succede a una società che smette di ascoltare i bambini?
Giorno 1, Matera
Foto di Luca Centola
Matera, per la prima volta in 20 anni faccio la tua conoscenza. Partenza alle 8, sveglia alle 7 e 15. Si arriva intorno alle 8 e 40 in piazza San Pietro Caveoso, dunque inizia uno dei momenti che definirei propri delle Albe: tre cori prendono vita grazie alle voci dei ragazzi e delle guide, tra chi è assonnato e chi pensa di essere sul palco del National Theatre, poi raccolti in cerchio si ascolta una registrazione di Ermanna Montanari (tra le fondatrici delle Albe) che apre le preghiere laiche, momenti di ascolto mattutino per tutti i partecipanti alla spedizione Hamelin. Segue la prima scena, anzi l’ultima. La prima scena che giriamo sarà la fine del film, io mi trovo in postazione di regia con il direttore artistico Alessandro Argnani e il regista Alessandro Penta: la scena è mozzafiato, ragazzi e ragazze che scendono per le viuzze dei sassi e si riuniscono attorno al pifferaio. Penta, utilizzando un megafono, dissuade i turisti dal passare nell’inquadratura e spiega ai ragazzi di non guardare in camera. Servono sei ciak prima che la scena venga bene. Una volta un gruppo è lento, un’altra spuntano 3 turisti, un’altra difetta di energia. Dopo un’ultima ripresa da una diversa angolatura i ragazzi vanno a fare merenda, poi abbiamo l’ultima scena del giorno con loro protagonisti, girata con la telecamera che retrocede per una via che a Genova si chiamerebbe carrugio per dimensione e praticità, cercando di riprendere i ragazzi che inseguono il pifferaio.
Mi stacco dal gruppo principale per pranzo e trovo il tempo per una passeggiata: architettura romanica e razionalista, palazzi ottocenteschi che ti guidano verso i sassi, una volta perso tra i vicoli chiudo Maps e vado a istinto, ci sono pochi passanti e a ogni curva la vista è sempre più incredibile. Mi dirigo verso il luogo dove giriamo l’ultima scena della giornata, sul tufo del rione Malve, con gli adulti che guardano la vallata, disperati e coscienti, hanno abbandonato il loro futuro, hanno lasciato i ragazzi al pifferaio. Gli attori sono materani e ravennati, accompagnatori e non, genitori e non, un altro coro. Alcuni sono muti, altri credono (come i bambini) di essere sul palco del National Theatre a Londra. Argnani e Penta dirigono, dicono (come ai bambini) di non guardare in camera, di muoversi e di non esagerare. Dopo alcune dritte e prove la scena è buona, si prosegue con vari primi piani, singolari e di gruppo, e si rientra al Santuario. Oltre che tra gli adulti è la prima volta per me in cabina di regia, osservo con attenzione tutto ciò che succede e penso che in fin dei conti è tutto assurdo quanto meraviglioso, gente da tante scuole, gente da mondi diversi.
Chiacchiero con due coppie di turisti tra una ripresa e l’altra, una olandese e una britannica, spiego loro cosa stiamo cercando di fare, anche se alla domanda «Why?» tentenno sempre… Non c’è un perché unico e facile da snocciolare in 3 minuti, sono sicuro che quel perché è complesso e profondo, o forse no? Comunque credo non sia corretto riassumere decenni di lavori e ideali in 5 minuti di small talk, ergo concludo. La giornata è faticosa, usciamo alle 8 e rientriamo alle 20 e 30, appena in tempo per cena, con tre corpose fiasche di rosso. Che stanchezza eppure che spettacolo, quei ragazzi, quella città, quelle riprese e quelle storie che ci si racconta alla fine, con le gambe in frantumi e cuori e menti che viaggiano come Shinkansen.