A caccia di gas sul fondo del mare Offshore, tra storia e futuro incerto

Il 17 aprile il referendum No Triv: a Ravenna interessa 32 piattaforme
Nel 1960 il primo giacimento in mare, oggi migliaia di occupati

A 1.849 metri di profondità la trivella si ferma. C’è il giacimento di gas. È l’ottobre del 1960 e dopo due buchi nell’acqua, nonostante fossero scesi a 3.237 metri e 2.062, il terzo pozzo perforato in quattro mesi è quello buono: comincia la storia dell’offshore di Ravenna. A distanza di 56 anni i pozzi attualmente in produzione nel fondale delle acque ravennati sono un centinaio (molti di più quelli trivellati in mezzo secolo ma già giunti a esaurimento), collegati alle due centrali di raccolta a terra a Casalborsetti e Lido Adriano tramite 42 piattaforme di produzione (dato fornito da Eni che è l’unico operatore presente nelle acque antistanti la provincia di Ravenna) che punteggiano quella linea dove l’azzurro del cielo tocca l’azzurro del mare nel tratto di litorale cervese e ravennate. Una trentina di quei giganti d’acciaio ha il destino appeso all’esito del referendum del 17 aprile.

Fu la burocrazia a permettere di scoprire il giacimento nell’Adriatico ravennate. I primi due pozzi, come detto, si erano rivelati improduttivi così si era deciso di spostare in Egitto l’impianto di perforazione (costituito da una torre su una piattaforma mobile e una nave appoggio per ospitare i lavoratori con motori, pompe e deposito di materiale). In attesa di completare le pratiche doganali, per evitare il fermo macchina come racconta il sito web dell’associazione pionieri e veterani Eni, cominciò un terzo tentativo…

Una volta trovato il giacimento si moltiplicarono le trivellazioni fino a quando fu necessario installare le piattaforme di produzione sulla testa dei pozzi. La prima fu costruita in officina in una notte e installata in cinque ore di lavoro al largo: misurava cinque metri per cinque (oggi le strutture più grandi di fronte a Ravenna hanno dimensioni 56×25 o 30×165 con altezze sul livello del mare che possono raggiungere gli 80 metri e installate su fondali profondi una trentina, potendo ospitare di solito fino a 30-40 lavoratori in turni di due settimane). Nel 1964 cominciava l’erogazione di gas dal primo giacimento marino scoperto nell’Adriatico.

Se si parla di piattaforme offshore occore subito una necessaria distinzione: quelle entro le 12 miglia nautiche (circa 22 km) dalla costa e quelle oltre. Ricordando che in linea d’aria la Croazia dista da Ravenna poco meno di cento miglia (180 km). La distinzione sulla linea delle 12 miglia è necessaria perché sono le concessioni di estrazioni interne a poter risentire delle conseguenze del referendum abrogativo. Ma sui numeri di quante siano a dover fare i conti con l’eventuale raggiungimento del quorum e della vittoria del sì, è scoppiata una vera e propria guerra in queste settimane di campagna referendaria con gli schieramenti a fornire ognuno la propria lettura. Una elaborazione di Legambiente su dati aggiornati a dicembre 2015 dice che le piattaforme in Italia entro le 12 miglia sono 79 (collegate a circa 450 pozzi) di cui 47 in Emilia Romagna e di cui 32 su una superficie di 770 km quadrati di fronte alle coste ravennati. Il ministero dello Sviluppo economico dice che in totale entro le 12 miglia sono 89 (collegate a 469 pozzi) su un totale di 131 nell’offshore italiano (collegate a 726 pozzi).

L’ipotesi della Cgil è che in caso di vittoria del sì al referendum possano chiudere 15 piattaforme ravennati entro il 2018: si tratta degli impianti inclusi in tre concessioni scadute a fine 2015 per cui è già stata richiesta la proroga ma il pronunciamento del ministero è sospeso in attesa della consultazione popolare. Le restanti 17 piattaforme ravennati fanno parte di concessioni che raggiungerano la scadenza tra il 2024 e 2027. Ci sono poi le dieci piattaforme oltre le dodici miglia che non sono coinvolte dal referendum e continueranno la loro operatività a prescindere da cosa accadrà a metà aprile. A livello nazionale, dice il Mise, entro le 12 miglia ci sono 44 piattaforme di concessioni che scadono da qui al 2034 (di cui 30 nel 2020).

Secondo Legambiente la produzione italiana entro le 12 miglia nel 2015 è stata di 542mila tonnellate di petrolio e 1,84 miliardi di mc di gas, il ministero dice 1,5 Miliardi di mc di gas e di circa mezzo milione di tonnellate di olio che corrisponderebbero al 43 percento della produzione offshore di gas e al 72 percento della produzione di olio offshore. A Ravenna si estrae solo gas: secondo i dati dell’associazione ambientalista l’anno scorso dal sottosuolo marino ravennate in acque territoriali sarebbero arrivati circa 670 milioni di mc, un terzo della produzione nazionale offshore. Ma Legambiente si spinge a conteggiare anche i consumi italiani: per il gas nel 2014 sono stati di 50,7 milioni di tep (milioni di tonnellate) corrispondenti a 62 miliardi di mc. Alla luce di questo vorrebbe dire che la fascia costiera di 12 miglia a Ravenna ha contribuito al fabbisogno nazionale per l’uno percento.

Tutte le piattaforme ravennati oggi sono di proprietà di Eni che ha ereditato da Agip e Saipem le conoscenze e le competenze che muovono il distretto energetico imperniato sul quartier generale della multinazionale in via del Marchesato a Marina. Gli ultimi dati forniti da Filctem-Cgil parlano di 550 dipendenti diretti Eni e circa quattrocento aziende collegate per un indotto di alcune migliaia di posti di lavoro. Un mese fa l’assessorato regionale alle Attività produttive, citando dati del Roca (l’associazione ravennate dei contrattisti offshore), sosteneva che nel 2014 il distretto ravennate potesse contare settemila addetti e un fatturato di circa 2,35 miliardi di euro stimando per il 2016 una contrazione degli occupati del 27 percento e una perdita di fatturato del 44 percento. Proprio il presidente del Roca, la settimana scorsa, si è espresso con toni preoccupati sostenendo che il settore a Ravenna ha già perso oltre novecento occupati e ne perderà entro l’anno altri 2.700, su un totale di circa settemila. Lo scorso ottobre Confindustria Ravenna parlava di 40 aziende dirette per circa tremila dipendenti e 80 nell’indotto per ottomila dipendenti indiretti che in totale generano oltre tre miliardi di business. A novembre il vicesindaco Giannantonio Mingozzi, con delega al Porto, parlava di un settore vicino alle diecimila unità tra addetti diretti e indiretti per poi aggiustare il tiro a gennaio paventando il rischio di perdere 1.600 occupati su cinquemila in tre mesi e il resto entro un anno. Alla vigilia di Pasqua, Mingozzi ha diffuso i dati di un rilevamento commissionato dalla Regione a Unioncamere per una stima più dettagliata del settore: in regione 976 imprese offshore che occupano 9.010 addetti, di questi rispettivamente il 13 percento e il 30 percento si concentrano su Ravenna cioè circa centro aziende e tremila addetti.

Ma per capire davvero la situazione del settore occorre riocordare un ultimo dato: l’11 luglio 2008 la quotazione del petrolio toccò il massimo storico di 147,25 dollari al barile mentre le quotazioni del Brent di gennaio lo vedono precipitato a 28. In questo scenario le estrazioni di idrocarburi non sono più così convenienti e sono le compagnie petrolifere a bloccare gli investimenti a livello mondiale, dove l’incidenza delle 79 piattaforme nelle 12 miglia italiane è irrisoria.

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