In Romagna il cappelletto non è soltanto un formato di pasta, ma un codice culturale. È un segno di appartenenza, una grammatica familiare che varia di casa in casa e, soprattutto, un potente simbolo del Natale. Ogni provincia, ogni città e ogni paese custodisce un proprio modello, definito da ingredienti, ritualità e interpretazioni identitarie stratificate nel tempo. Fra le varianti più emblematiche emergono due poli distinti: il riminese, con il ripieno di carne, e il ravennate, con il ripieno di soli formaggi. Non si tratta di semplici differenze gastronomiche, ma di due visioni della cucina delle feste, che raccontano percorsi storici e consuetudini domestiche profondamente radicate.
Quindi, due ripieni e due storie: nel Riminese si afferma da secoli un ripieno “ricco”, che include petto di pollo o di cappone, vitello e maiale, completato con Parmigiano e noce moscata. Questa scelta affonda le radici nella cultura contadina dell’entroterra, dove il ciclo delle uccisioni invernali e la disponibilità di carni favorivano preparazioni robuste, adatte alle tavole delle feste. Questo cappelletto rimanda quindi ad un’idea di abbondanza, al lusso del pranzo natalizio in cui la carne diventa il vero tratto distintivo.
Nella provincia di Ravenna prende invece forma un modello “di magro”, apparentemente più sobrio ma altrettanto identitario: un ripieno composto solitamente da formaggi freschi (ricotta e/o raviggiolo) e stagionati (solitamente Parmigiano). È un’eredità della cucina monastica e delle prescrizioni ecclesiastiche: secondo la tradizione cattolica, la vigilia richiedeva l’astensione dalla carne. Da qui nasce un ripieno che privilegia latticini freschi e sapidità casearie, in grado di sostenere la struttura della pasta e di emergere nel brodo. La presenza del raviggiolo – formaggio delicatissimo e stagionale, legato alla transumanza appenninica – conferisce al cappelletto ravennate un’impronta territoriale inconfondibile.
Queste due scuole, lontane solo pochi chilometri, rappresentano due modi diversi di intendere la festa: uno più opulento, l’altro più legato al calendario liturgico e alla stagionalità dei prodotti caseari. Nel confronto tra ripieno di carne e ripieno di formaggio non c’è superiorità, ma complementarità. Sono due modi di celebrare la festa, due interpretazioni della stessa matrice culturale. Il risultato è un mosaico gastronomico che riflette con trasparenza la complessità della Romagna: agricola e marittima, contadina e monastica, opulenta e sobria, sempre profondamente legata alla ritualità del cibo. Sopra a tutto però, c’è il valore simbolico del cappelletto, a partire dalla sua forma. Secondo l’iconografia popolare ricorderebbe il cappuccio dei chierici oppure il copricapo dei messi medievali; in altre narrazioni evoca l’idea del “piccolo dono”, un involucro che custodisce un tesoro gastronomico. Il gesto della chiusura è forse la parte più rituale dell’intera preparazione: il triangolo che si curva intorno al dito indice riproduce un movimento antico, che in molte famiglie rimane un vero rito di passaggio. Imparare a “fare i cappelletti” equivale a sancire l’ingresso nel patrimonio culinario domestico.
Nel calendario delle feste
In Romagna il Natale non esisteva senza un grande pentolone di brodo, spesso ottenuto da cappone, gallina e manzo, sul quale si affacciava una generazione intera, dai nonni ai bambini. La preparazione iniziava nei giorni precedenti: il brodo sobbolliva lentamente, la sfoglia si stendeva sul tagliere e il ripieno si assaggiava con devozione. Il giorno della vigilia o del 25, la cucina si trasformava in un laboratorio familiare dove tutti avevano un ruolo: chi tirava la pasta, chi tagliava i quadratini, chi chiudeva i cappelletti con velocità e precisione variabili. Non era solamente un pasto: era un dispositivo sociale che riuniva, riparava e rinnovava i legami. La produzione collettiva del cappelletto era una scrittura corale della memoria. Una gestualità che conservava la storia delle famiglie, dei campi, delle stalle e delle case romagnole.

Ragù o brodo?
In Romagna il condimento dei cappelletti non è una scelta tecnica, ma un atto culturale. Il brodo, rigorosamente di carne, è in teoria l’habitat ideale: esalta il ripieno, valorizza la sfoglia e restituisce l’idea stessa di festa. Ed è con i cappelletti “di magro” che crea un connubio perfetto: diventa un amplificatore aromatico che avvolge i formaggi senza sovrastarli. È la forma più antica e simbolica del piatto, legata al pranzo natalizio e alla convivialità domestica.
Il ragù, invece, appartiene a una tradizione più recente nella quale si consolida l’identità “ricca” della preparazione: il sugo aderisce alla pasta e si combina con il ripieno, dando vita a un piatto robusto, quasi spavaldo, profondamente legato alla tradizione contadina. Brodo e ragù, quindi, non competono: semplicemente raccontano di epoche diverse, di territori, di economie e di calendari agricoli differenti. Due stili, una sola matrice culturale
LA RICETTA
ECCO COME PREPARARE I CAPPELLETTI RAVENNATI
La ricetta tradizionale prevede un ripieno interamente caseario, ricco ma equilibrato. È una formula che gioca sul dialogo fra freschezza lattica e sapidità stagionata, esaltata da una noce moscata grattata al momento, ingrediente imprescindibile per conferire profondità aromatica.
La preparazione inizia dalla sfoglia: 400 grammi di farina 0 e 4 uova intere. Occorre impastare fino a ottenere una massa omogenea, elastica e compatta. Il riposo di almeno 30 minuti, avvolta in pellicola, è un passaggio chiave: permette al glutine di rilassarsi e facilita la stesura fine, che dovrà raggiungere circa un millimetro. Nel frattempo, si lavora il compenso (questa è una delle tante versioni): 100 grammi di ricotta di latte intero, 100 grammi di raviggiolo, 350 grammi di Parmigiano 24 mesi (o 280 grammi + 70 grammi di pecorino) e la noce moscata. La consistenza ideale è cremosa ma sostenuta, tale da restare compatta nella chiusura.
La sfoglia si taglia a quadratini di 4–5 cm per lato, su ciascuno dei quali si colloca una piccola noce di ripieno. La chiusura, a triangolo, richiede attenzione: i bordi vanno pressati con cura per evitare aperture in cottura. Poi il triangolo si fa ruotare attorno al dito indice, sovrapponendo le estremità: è qui che nasce il vero cappelletto, piccolo gesto tecnico che incarna secoli di tradizione.
La cottura avviene in abbondante brodo di carne, bollente e limpido. Il brodo diventa così parte integrante del piatto: non un semplice liquido, ma l’ambiente in cui il cappelletto rivela la sua essenza.



