“Anic. Sequenze di fabbrica”: 135 pagine che ospitano una serie di fotografie e riflessioni dell’autore affiancate dal saggio critico di Serena Simoni

Ravenna è nota nel mondo, come si sa, per essere stata l’ultima capitale dell’Impero romano d’Occidente, per i mosaici patrimonio dell’Unesco, per aver ospitato il «ghibellin fuggiasco» e, almeno su suolo britannico, per uno dei tanti amori di Lord Byron. Forse sarebbe il momento che fosse conosciuta anche per essere stata immortalata in un film, Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia del 1964, che nemmeno tutti i ravennati conoscono e apprezzano: Il deserto rosso, del grande regista ferrarese Michelangelo Antonioni.
Tra l’altro è vergognoso che, nella città che gli ha conferito la cittadinanza onoraria il 4 aprile 1998 – al Cinema Astoria, io c’ero –, non si sia trovato il modo di intitolargli una via. Chi, a Ravenna, si è impegnato a far conoscere questo capolavoro, sono stati, per quel che posso ricordarmi: Fabrizio Varesco, videomaker, curatore, nel dicembre 2013, di un convegno dal titolo “Anatomia di un capolavoro: Il Deserto rosso di Michelangelo Antonioni”; la fotografa Alessandra Dragoni e la regista Morena Campani, coi libri Troppo sole per Antonioni (Danilo Montanari Editore, 2018) e Mon désert rouge. Sur les traces d’un tournage d’Antonioni (L’Harmattan, 2019); l’artista Raniero Bittante, con le due mostre Benvenuti all’ANIC, nel 2022, alla Biblioteca Classense, e, nel 2023, al Teatro Rasi; una puntata delle “Storie di Ravenna”, dal titolo Deserto rosso, il petrolchimico e la questione ambientale, nel 2023, ancora al Teatro Rasi, con Cesare Albertano, Luigi Dadina, Alessandra Dragoni, Giovanni Gardini, Alessandro Luparini e Laura Orlandini; infine, se mi è permesso, anche un po’ chi scrive, con diverse pubblicazioni e conferenze.

Negli ultimi anni, una voce sopra tutte le altre ha contribuito a parlarne: il fotografo, artista sonoro e field recordist (“registratore sul campo”) Adriano Zanni, con la rubrica “Cronache dal Deserto Rosso”, pubblicata su questo sito e sul nostro settimanale a partire dal 2012, con la mostra fotografica Red Desert Chronicles (Postcard from Ravenna), nel 2015, alla Galleria d’arte Mirada e al Fargo Cafè, e Red Desert Chronicles (Part One), nel 2023, ancora al Fargo Cafè e al Teatro Rasi, durante il festival Transmissions, e, ora, usciti nel novembre scorso, col libro fotografico e un vinile dal titolo ANIC. Sequenze di Fabbrica (Boring Machines).
Nel libro, bilingue, in inglese e italiano, le 135 pagine si suddividono in alcune riflessioni non firmate, ma dell’Autore, e in un saggio critico di Serena Simoni. La parte visiva, invece, in alcuni disegni, in parte inediti, di Davide Reviati, tratti dal graphic novel Morti di sonno (Coconino Press, 2009), in alcune sequenze da Il deserto rosso e alcuni scatti di scena che ritraggono Antonioni e Monica Vitti.
In aggiunta, una foto di una delle due torri di raffreddamento dell’ex Sarom e un ritratto di tre donne sorridenti in posa davanti alla stessa torre. Su queste torri, ahimè distrutte un anno fa, Zanni aveva presentato un bellissimo video nella giornata Requiem / proiezioni, live set, fotografie, all’interno della rassegna “Inno al perdersi”, a cura di Spazi Indecisi, tenutasi a @EXATR, a Forlì, il 23 maggio 2024, video accompagnato, in diretta, da un suo intervento musicale.
Il bel testo di Simoni ripercorre la storia dell’Anic, dalle «magnifiche sorti e progressive» della sua fondazione, eternate dalle sequenze “da film western” del documentario Il gigante di Ravenna di Fernando Cerchio del 1960, all’azione, oggi forse diremmo di greenwashing – ma sarebbe, forse, un anacronismo storico e un giudizio troppo severo –, del mensile Il gatto selvatico, diretto per dieci anni dal poeta Attilio Bertolucci con interventi, tra gli altri, di Anna Banti, Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, Goffredo Parise e Leonardo Sciascia.
Il saggio di Simoni approfondisce altre tematiche su cui, dato lo spazio a disposizione, non mi posso distendere come invece meriterebbero. Ma voglio ricordare almeno lo sguardo dei bambini di allora – oggi adulti – nei confronti della fabbrica, paragonata a un “drago” sputafuoco – il cane a sei zampe simbolo dell’Eni di Enrico Mattei, figura, anche la sua, su cui sarebbe necessario soffermarsi a lungo (lo si è fatto il 6 maggio alla Biblioteca Oriani, in occasione della presentazione del libro curato da Sandro Rogari, Enrico Mattei. Un protagonista del miracolo economico, Bologna, il Mulino, 2024).
Le foto di Zanni, in un “bianco e nero rigoroso” (Simoni), non hanno nulla del “titanismo pionieristico” (sempre Simoni) dei tempi di fondazione della fabbrica. Affiancate, nella prima immagine, da una citazione del film – «c’e del fumo laggiù all’Anic, è finito lo sciopero?» –, scattate quasi sempre con un cielo grigio, costellato dai fumi della fabbrica e dalla nebbia (e anche quando le foto sono col cielo sereno non si avverte nessuna “felicità”), all’interno di queste foto, come giustamente sottolinea Simoni, «non c’è il progresso, la produzione, la vittoria dell’uomo sulla terra», semmai un senso profondo di solitudine, come se vivessero una vita distante da tutto e da tutti. Nulla di quella profonda vitalità che Antonioni vedeva nelle fabbriche – «La fabbrica è più varia, più vivace perché, dietro, si avverte la presenza dell’uomo con la sua vita, i suoi drammi, le sue speranze» – traspare dalle immagini dell’Autore.
È forse significativo che, per Zanni, il passato sia a colori e il presente, invece, in bianco e nero. Un “manifesto di melanconia” ravennate, come la celebre Melencolia I di Albrecht Dürer, anch’essa, non a caso, incisa nel nitore del bianco e nero.