Intervista al giornalista e scrittore, che sarà a Sant’Agata per ScrittuRa Festival

Lorenzo Tosa, giornalista e scrittore, ha una delle pagine Facebook più seguite d’Italia, dove pubblica ogni giorno opinioni sui fatti di attualità. Martedì 20 maggio sarà a Santa’Agata sul Santerno per presentare il suo ultimo libro, “Il treno della memoria”, nell’ambito di ScrittuRa Festival. Lo abbiamo intervistato in attesa dell’appuntamento, che si terrà in piazza Umberto alle 21.
Di cosa parla “Il treno della memoria”?
«È un libro rivolto a ragazzi da 11 a 17 anni, perciò è molto diverso rispetto a quelli che ho scritto finora. L’esperienza narrativa è stata molto sfidante, mi ha costretto a confrontarmi con uno stile nuovo per me. Il volume affronta un pezzo di storia ancora attuale, quello dei campi di sterminio e dell’olocausto. Uno dei più grandi orrori nella storia dell’umanità».
Perché ha voluto rivolgersi ai giovanissimi?
«La proposta è arrivata dall’editore DeAgostini. Mi aveva chiesto di scrivere un libro che parlasse di attualità e politica agli adolescenti, ma non ero convinto, perché avevo già fatto qualcosa di simile per gli adulti. Poi è arrivata l’idea dall’amico Paolo Paticchio, fondatore dell’associazione Treno della memoria: in vent’anni di vita, la sua realtà ha portato circa 60mila giovani a conoscere l’esperienza dei campi di sterminio; perciò abbiamo pensato di lavorare insieme a un volume che tracciasse un bilancio di questa iniziativa straordinaria».
Quanto c’è ancora bisogno oggi di sensibilizzare sul razzismo e l’olocausto?
«Tanto. Nonostante la giornata della memoria, ho la sensazione che in Italia ce ne siamo un po’ dimenticati. È un pezzo di storia che ci ha visto protagonisti in negativo e ricordarlo è fondamentale per non ripetere quel passato oscuro. Oggi non ci sono più le condizioni storiche per il ritorno della marcia su Roma e delle camicie nere, ma i germi del fascismo sono ancora vivi nella discriminazione, nella repressione, nella chiusura verso l’altro. Basta pensare a Gaza e ai migranti. È un vento politico che abbiamo al governo».
È in atto un processo per rimuovere o minimizzare il nostro passato fascista?
«C’è un forte ritorno nostalgico, un tentativo di sdoganare quel retaggio, che arriva da una precisa parte politica e viene raccolto dai tanti fascisti che ancora oggi esistono nel nostro paese. Lo abbiamo visto di recente ad Acca Larentia e Dongo, con manifestanti che facevano il saluto romano protetti dalla polizia. L’antifascismo dovrebbe essere il prerequisito della democrazia; invece è tornato a essere divisivo».
Lei ha una pagina Facebook seguita da oltre 660mila persone. Come è nata?
«Non è stata un’idea a tavolino, bensì qualcosa che è accaduto in modo spontaneo, fino a scoppiarmi in mano. Nel 2019 ho iniziato a scrivere ciò che pensavo: non lo ritengo giornalismo, ma una forma di attivismo digitale. Cerco di presidiare uno spazio fondamentale di democrazia, che per anni è stato imbarbarito da inquinatori seriali provenienti dalla destra politica e culturale. Ho provato a essere virale usando le loro stesse tecniche, ma restando dalla parte che ritengo più giusta; quella che mette al centro i diritti, la tolleranza e l’apertura verso l’altro. Sei anni fa era una posizione drammaticamente assente sui social, mentre oggi per fortuna ci sono tante altre pagine simili. Senza queste, Facebook sarebbe una giungla di populismi e toni violenti, all’insegna dell’odio, della discriminazione e dell’intolleranza».
Ha mai ricevuto minacce per le sue idee?
«Ricevo commenti di insulti ogni minuto; è qualcosa a cui non ci si abitua mai e non ci si deve abituare. Alcuni dicono che fa parte del gioco, ma non sono d’accordo. Essere esposti mediaticamente non significa che sia giusto essere oggetto di odio. Nei miei post esprimo critiche, talvolta dure, ma non sono mai scaduto nell’insulto. Talvolta procedo per vie legali contro chi scrive gravi offese: è un modo per far capire che sui social non vale tutto, che odiare ti costa. Per fortuna, la violenza verbale che ricevo su Facebook non è mai sfociata altrove. Faccio almeno 60 incontri pubblici all’anno e non ho mai visto odiatori presentarsi di persona a dirmi le stesse cose che scrivono online. D’altronde, molti credono di poter dire tutto ciò che vogliono sui social – talvolta nascondendosi dietro l’anonimato – ma non hanno il fegato di farlo dal vivo».
I suoi post utilizzano dei meccanismi retorici molto consolidati, che ricevono apprezzamenti da chi la pensa come lei. Condividere e mettere like può farci sentire meglio con noi stessi, ma è una pratica ininfluente nel mondo offline. Le è mai venuto il dubbio sull’utilità concreta del suo “attivismo digitale”?
«Mi faccio questa domanda ogni giorno: a cosa serve? Ne vale la pena? La risposta è che i post e i like non sono sufficienti. L’attivismo digitale deve essere solo la prima tappa di una forma di resistenza che va proseguita nelle piazze e nelle urne. Ogni cosa che scrivo arriva a milioni di persone, eppure mi chiedo dove siano tutti questi follower, quando bisogna votare o portare il proprio corpo in una manifestazione. I social devono essere la scintilla iniziale di partenza, ma il grosso del lavoro va fatto fuori».
In che modo?
«Personalmente, non mi sento un agitatore di piazza e non ho intenzione di entrare in politica. Non nego che possa accadere in futuro, ma al momento non vedo le condizioni giuste. Ho avuto proposte che ho declinato, perché penso che il mio spazio oggi sia nei social. Tuttavia lo vedo come un territorio riduttivo e limitante. I post devono essere brevi, semplici e arrivare in fretta a tutti. Ma questo impedisce la complessità dei discorsi, che cerco di recuperare scrivendo libri».
Perché non tentare di elevare il discorso online, anziché adeguarsi agli schemi premiati dagli algoritmi?
«È una scelta consapevole. So di avere sette secondi di attenzione per conquistare un follower, prima che passi al post successivo. Non posso permettermi di perderlo, perciò cerco di acchiapparlo. Se si vuole arrivare a tante persone, è inevitabile sporcarsi le mani in questo modo. Qualcuno mi accusa di semplificare troppo i discorsi, ma i miei post non hanno la pretesa di risolvere un argomento, bensì di accendere scintille. Se qualcuno si interessa a un tema grazie a me, può approfondirlo altrove. Per questo, mi spavento quando alcuni utenti mi dicono di informarsi solo attraverso la mia pagina: non lo trovo un modo sufficiente. D’altra parte il giornalismo tradizionale, per motivi di cui potremmo discutere per ore, ha perso la capacità di essere efficace e di arrivare a tanti. Lo dico con dispiacere, non con vanto».
L’incapacità di arrivare a tanti vale anche per la politica di sinistra?
«Tutta la politica si è piegata sul crinale del populismo avviato da Grillo. Questo non lo ha scelto la sinistra, ma ormai il consenso passa dalla pancia delle persone, perciò si è costretti a confrontarsi su questo terreno o almeno a porsi il problema. Per anni, purtroppo, la sinistra ha commesso e pagato l’errore di parlare solo ai radical chic anziché ai milioni di persone che vanno a votare. Forse andrò controcorrente, ma penso che Elly Schlein abbia ritrovato il giusto equilibrio, con la sua capacità di arrivare a tante persone mantenendo un profilo politico alto, senza ridurre ogni questione a slogan e bagarre. Era necessario farlo, altrimenti rischiamo di avere Giorgia Meloni al governo per altri dieci anni. È un pericolo che non possiamo permetterci».