Se c’è una cosa su cui tutti ormai siamo d’accordo è che le parole sono importanti. Capita che a un certo punto nuovi fenomeni o una nuova consapevolezza di vecchi fenomeni richiedano nuove parole. Così è stato per il lemma “femminicidio” entrato nel dizionario Treccani con la seguente definizione: «Termine con il quale si indicano tutte le forme di violenza contro la donna in quanto donna, praticate attraverso diverse condotte misogine (maltrattamenti, abusi sessuali, violenza fisica o psicologica), che possono culminare nell’omicidio. Questo tipo di violenza affonda le sue radici nel maschilismo e nella cultura della discriminazione e della sottomissione femminile».
Un termine delicato, quindi, da maneggiare con cautela perché contiene dentro accuse e riferimenti molto precisi a un certo di tipo di rapporto uomo-donna e che no, non indentifica automaticamente la morte di una donna per mano di un uomo.
Altrettanta cautela servirebbe, sempre e comunque, nel parlare e commentare fatti di cronaca, in particolare quando riguardano un nucleo famigliare, in particolare quando di mezzo c’è la malattia, in particolare quando c’è di mezzo la malattia mentale come può essere una demenza senile. È quindi stupefacente leggere le parole dell’assessora alle Politiche di genere Federica Moschini che accusano di femminicidio un uomo di 78 anni che ha annegato la moglie da tempo malata e di cui da dieci anni si prendeva cura, prima di autodenunciarsi. «Piera Ebe Bertini è vittima due volte: uccisa perché non soffrisse più, una modalità paternalistica di vedere i fatti e di raccontarli che assolve l’uccisore», scrive Moschini. Che aggiunge: «E sono anche stanca di leggere notizie riportate in questo modo, dove la vita, sopratutto quella di una donna anziana e magari malata, sembra valga meno di quella di un uomo stanco, poverino, di doverla assistere per anni, che deve essere giustificato e compreso». Parole non lontane da quelle della Casa delle donne che scende in piazza come per ogni femminicido.
Allora, ci permettiamo di dire che invece sì, una persona (persino un uomo, assessora!) che accudisce una persona amata per una vita va capito, che un tentativo di comprensione invece va fatto, che chiamare “femminicidio” il recente fatto di cronaca a Ravenna non serve a inquadrare meglio il fenomeno del patriarcato, tanto meno a sensibilizzare sul tema; serve semmai a trasformare ogni uomo in un possibile nemico della moglie senza considerare attenuanti, trascorsi, contesti, sofferenze, precedenti. Nessun tribunale può essere così spietato e disumano.
Non è certo questo il femminismo che vorremmo e di cui abbiamo bisogno. Un femminismo che, peraltro, affibbiando etichette ai colpevoli, finisce per definire e “catalogare” anche le vittime senza sapere e senza conoscere la storia di una vita conclusa in tragedia.