Ci risiamo, c’è un’altra storia di un paziente che ha trascorso un tempo infinito in pronto soccorso a Ravenna. Una settantenne è entrata il 27 novembre, portata dall’ambulanza del 118 dopo una caduta da una scala a pioli in casa, ed è uscita dopo 33 ore. Diagnosi: due ferite alla nuca e una alla gamba (che hanno richiesto punti di sutura), fratture scomposte alla scapola (braccio immobilizzato per 30 giorni con un tutore perché non operabile), una costola rotta, una vertebra scheggiata. Le 33 ore sono trascorse su una scomoda barella in un camerone con una decina di altri disgraziati infortunati, in attesa di radiografie, di Tac, di visite ortopediche, di cuciture di ferite. Non era un paziente in pericolo di vita, certo, ma non può bastare questo per sentirsi soddisfatti.
Lo diciamo subito con trasparenza: la donna è parente di chi scrive che è stato presente in ospedale. Per questo abbiamo una testimonianza diretta della vicenda. Ma non è per questo che la scriviamo. Anzi, in un primo momento ci eravamo anche detti che forse non meritava spazio sul giornale, perché non è il primo caso di lunghe attese in Ps (basti dire che in quel camerone nessuno poteva vantare meno di una decina di ore di attesa, in una sorta di guerra fra poveri per il titolo di più sfigato). Poi ci siamo detti che invece andava scritta proprio perché non è il primo caso. Spoiler: non sarà l’ultimo (di dicerto ancora per un po’), ma non tutti arriveranno alla stampa.
Un sistema sanitario che si considera di eccellenza – così lo definiscono dirigenti dell’Ausl Romagna e politici della Regione – non può essere tale se tiene persone scassate per 33 ore sulle barelle del Ps. E la popolazione di quel sistema sanitario non deve rassegnarsi o, peggio ancora, non deve evitare il pronto soccorso (quando ne ha bisogno) perché sa che ci si invecchierà nell’attesa.
Non è una situazione solo ravennate. Ma mal comune non è mezzo gaudio. L’ex sindaco di Rimini ed ex primario di Oncologia, Alberto Ravaioli, si è sfogato sui social proprio in questi giorni. La cognata ha passato la notte tra il 29 e il 30 novembre in pronto soccorso a Forlì: «C’erano oltre 30 pazienti in attesa tra adulti e bambini, con soli due medici. Tempi interminabili». Ravaioli ha proposto di pagare molto di più i medici per colmare le attuale carenze degli organici. Basterà? Intanto è una proposta.
È proprio questo che sembra mancare da parte dell’Ausl. Non si percepisce l’impegno dell’azienda della sanità pubblica per invertire la tendenza. Magari lo sta facendo, ma i cittadini ne sono all’oscuro. A guardare le comunicazioni dell’Ausl nell’ultimo periodo, non c’è traccia del tema. Qualcuno si è posto il problema di come risolvere la cosa? O ancora prima, qualcuno lo considera un problema? Se c’è un problema di accessi inappropriati, come si corregge?
Una delle ultime notizie divulgate dall’Ausl risale al 26 novembre. È partito un progetto nel reparto di Medicina d’Urgenza (lo stesso a cui fa riferimento il pronto soccorso) per accogliere gli animali domestici dei pazienti perché «si è visto che la presenza di animali di affezione come cani e gatti può avere un impatto positivo sul benessere psicologico e fisico dei pazienti». Iniziativa lodevole, a basso impatto sui bilanci, che denota la sensibilità di un’azienda sanitaria: la cura della persona non è fatta solo di medicinali e esami. Allora visto che i medici non si trovano (e costano) e invece i gatti abbondano, magari la soluzione è già qui: l’Ausl fornirà un gattino che fa le fusa a chi ha 33 ore da aspettare in Ps?


