L’Eresia fra testimonianze, e temperature, africane

“A piena voce“ (3) da Milano

ragazzi senegalesi eresia a MilanoPortate i pianoforti sulla strada,
alla finestra agganciate il tamburo!
Il tamburo
spaccate e il pianoforte,
perché un fracasso ci sia,
un rimbombo.
V. M.

Ho dato un’occhiata veloce al meteo di Saigon, Vietnam. 28 gradi previsti. Qui a Milano, quartiere Affori, 36. Perfino i senegalesi sembrano accusare il caldo. «Siamo andati via da Diol Kadd, il nostro villaggio, che faceva freschino. Pioveva! Qui ho fatto fatica a dormire», mi racconta un sognante Moussa Ndiaye, 30 anni, figlio di Mandiaye, figura chiave del teatro africano contemporaneo, scomparso poco più di un anno fa. «Anche i nostri ragazzi si sono stupiti di trovare queste temperature africane qui in Occidente».

Stamattina, dopo colazione, il gruppo senegalese si è sistemato sul prato, all’ombra, a suonare i tamburi. Un lontano pulsare ossessivo che si perde nell’afa, e crea una strana sensazione di spaesamento: i suoni della giungla in un ex-manicomio milanese. Si preparano per la prima che ci sarà stasera, come tutti gli altri del resto: in cerchio, a ripetere i versi di Majakovskij, Ariosto, Baldini, in tutte (o quasi) le lingue del mondo.

Moussa si è avvicinato al Teatro delle Albe da giovane, 14 anni. Era appena arrivato in Italia per seguire suo padre, uno dei tanti nuovi abitanti del “ghetto”, Lido Adriano. «Quando partecipo ad un progetto della non-scuola penso sempre che è proprio questo ciò che stiamo cercando di fare anche noi, giù in Senegal. La nostra compagnia, Takku Ligey Theatre, fondata da mio padre, cerca di avvicinare al teatro soprattutto i bambini, per educarli certo, ma anche, semplicemente, per proteggerli. Ci sono enormi problemi istituzionali in Senegal, e i primi a rischiare sono loro. Scriviamo dei testi teatrali, recitiamo versi di poeti senegalesi che mirano a scuotere l’opinione pubblica proprio su questa tematica: la vulnerabilità dei bambini».

 

Porve dell'Eresia a MilanoAdesso i più piccoli del Senegal sono attorno al calcino (o calcio Barilla, come ho sentito dire ieri sera). Stanno sfidando il gruppo napoletano, che sembra le stia prendendo.

«Stiamo portando avanti il lavoro che l’ex presidente del Senegal, Léopold Sédar Senghor, attivista e poeta, aveva iniziato cinquantanni fa. Negli anni ’60 il Senegal, come tutto il mondo del resto, ha attraversato una fase di inurbamento incontrollato. Fu soprattutto Dakar a crescere, con le sue periferie mostruose, quartieri fittizi che ospitavano ragazzi giovanissimi di provenienza ed etnie diverse, quasi sempre lasciati a se stessi. Senghor decise di creare le ASC, associazioni sportivo-culturali, per farli giocare e parlare tra loro. Teatro, prima di tutto, come attività politica: si trattava di lasciar emergere quelle problematiche non dette, ma comuni a tutti, e trovare un modo di affrontarle di concerto».

«Anche noi, come i ragazzi della non-scuola, ci mettiamo in cerchio, a Diol Kadd, e recitiamo versi potenti e universali per noi, quanto quelli di Majakovskij». Basta! Basta! Basta! Combattiamo i maltrattamenti dei bambini!, mi recita in wolof. È il loro semplice e terribile grido di rivoluzione, la loro personale eresia della felicità.

«Venire in Occidente mi ha aperto gli occhi sulla mia cultura. Ora guardo tutto in modo diverso. La mia terra, le persone, le loro tradizioni. Credo sia un’esperienza che tutti gli africani debbano fare, senza dimenticarsi chi sono». Un’esperienza che noi Europei continuiamo a far costare troppo cara.

Andiamo a mangiare. Una breve pausa prima della ripresa delle prove. Roberto Magnani ci passa davanti col megafono in una mano e un calippo nell’altra, pronto ad iniziare l’appello. Esercizi fino alle 4 e mezza poi tutti sul torpedone, verso il Castello Sforzesco, ad intronare gli ignari passanti per la prima volta.

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