Provocatorio e sognatore: alla scoperta di Majakovskij

“A piena voce“ (5) da Milano

ragazzi vicini al ritratto di MajakovskijFausto Malcovati arriva verso le dieci di mattina. Pantalone lungo, mocassino, foulard attorno al collo, e tutti che si chiedono come faccia a non sudare. Il professore si porta dentro un po’ del clima rigido della sua terra d’elezione, la Russia. Malcovati è infatti uno dei massimi specialisti italiani di teatro russo. Professore di letteratura russa alla Statale di Milano, traduttore pluripremiato, grandissimo amante dei versi del giovane Majakovskij: oggi è con i non-scuolini per presentare, in una vera e propria lectio magistralis, il contesto storico e sociale nel quale cresce e matura il grande poeta russo.

«Fermatemi se vi annoiate troppo. – si schermisce, semiserio – Voi cosa facevate a dodici anni?» chiede alle prime file. Matteo Gatta, attore già grandicello e formato, risponde, e come non dargli ragione, che a dodici anni era alle medie. «Ecco, Majakovskij a dodici anni era in galera per attività sovversiva». Con Vladimir non c’è gara.

Per la cronaca, l’attività sovversiva di Majakovskij nella Russia zarista del 1905, era la distribuzione illegale di volantini inneggianti alla rivoluzione contro il potere autocratico dello zar Nicola II.

«Majakovskij era così, una voglia sfrenata di vivere, di essere in assoluto. Diverso da tutti gli altri, sempre: in poesia, in teatro, nella vita. Fare le cose in modo diverso, nuovo. Questo era il suo tratto distintivo. È come se ci dicesse: non importa ciò che fate della mia poesia. Anch’essa è un esperimento che si può manipolare, cambiare, stravolgere – come io ho stravolto la tradizione simbolista russa, come io mi sono appropriato della bylina e della lesenka, i canti popolari russi, per urlare le mie parole. Non rispettatemi come autore, piegatemi come volete, ma lasciatemi vivo».

I ragazzi sopportano in silenzio il caldo, l’attenzione resta alta – altissima quando viene letta la sua ultima poesia, scritta sulla lettera d’addio al mondo nel 1930, prima che il poeta si sparasse alla testa. La barca dell’amore | si è spezzata con gli scogli della quotidianità.

Interviene Martinelli: «Questo è ciò che stiamo cercando di capire in questi giorni, ragazzi. Come sia possibile continuare a vivere la quotidianità, senza far affondare la barca».

 

Fausto MalcovatiUn’ora appena, e Malcovati passa in rassegna con un’abilità invidiabile i tanti Majakovskij della Storia: quello provinciale e povero, affascinato dalla grande città; futurista, invaghito fin da giovanissimo della Rivoluzione, donna fatale; Majakovskij poeta precoce, anima dei cabaret moscoviti, “nuvola in calzoni” che sputa in faccia al pubblico; quello sfortunato in amore, che sceglie e si sceglie donne sbagliate per tutta la vita; innamorato della massa, che invece non ricambia affatto, ma che anzi fatica ancora oggi a capire i suoi versi pirotecnici; quello tradito dalla rivoluzione, inviso al regime, odiato da Lenin; irriducibile al burocratismo stalinista nonostante le canonizzazioni ufficiali (seppur postume) del regime; una cassandra già fiutante il futuro corso degli eventi, soprattutto nelle ultime commedie teatrali; quello che non riesce a sopportare la piega degli eventi, lo scadere irrefrenabile della rivoluzione in statalismo.

Majakovskij diversi, ma altrettanto reali, rispetto a quello urlato in Eresia della felicità: il poeta capace di comporre versi che scoppiano nelle orecchie, immaginifici e compiaciuti nel loro azzardo; un poeta, in una parola, giovane, che, secondo Malcovati, «merita di essere riscoperto, così come state facendo voi».

Un ragazzo dalla capigliatura incontrollabile, Kingsley, si alza e chiede se Majakovskij sia stato felice o meno durante la sua vita. «Purtroppo no, – risponde Malcovati – un’esistenza tormentata, solitaria; che non ha mai smesso di combattere, è vero, ma che agli occhi della storia, così come ai suoi stessi occhi (come dimostra anche la sua fine), risulta definitivamente perdente». Un’esistenza che, ancora oggi, come scrive Vittorio Strada ne Le veglie della ragione, rimane «un gran sogno di felicità e un gran grido di infelicità».

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