Epilogo dell’Eresia: ma Majakovskij era felice?

“A piena voce“ (8) da Milano

Eresia a MilanoPer l’allegria
il pianeta nostro
è poco attrezzato.
Bisogna
strappare
la gioia
ai giorni futuri.
V. M.

Il sabato mattina è l’ultimo momento per riflettere assieme, prima delle prove e dell’ultima replica di Eresia. Si decide di riunirsi verso le 11, per discutere di un nodo problematico, emerso durante questi giorni e ancora non risolto. Majakovskij era felice? Felicità è una parola importante per questi ragazzi, è scritta a caratteri cubitali sui loro cartellini gialli, rimbalza da cinque giorni sulle loro bocche. Si definiscono “eretici” della felicità, e dunque bisogna capire perché, il padre di tutti loro, Vladimir Majakovskij, si sia sparato all’età di 37 anni.

Ma non si tratta affatto di ricercare ragioni storiche, ricostruire criticamente la biografia del poeta, scavare a fondo nei pettegolezzi che, nonostante i suoi ammonimenti, si sono sprecati per giustificare il suo gesto. No, si riflette insieme per capire il perché del fallimento della felicità contro il quotidiano. Domande difficili e impegnative, che a tutta prima riempiono di silenzio il tendone delle riunioni.

Poi Carletto rompe il ghiaccio: qualche lacrima, un grande applauso e comincia il fiume degli interventi. Chi semplicemente ringrazia tutti, chi balbetta qualche parola confusa, chi attacca direttamente il problema con decisione. I più commoventi sono gli interventi dei ragazzi di Lamezia Terme e di San Felice sul Panaro, consci più di tutti gli altri di quel che abbandonano e di ciò che li aspetta al ritorno. Luoghi dalla storia difficile, dove la non-scuola ha rappresentato per loro molto più di un semplice momento ricreativo: un’àncora di salvezza, una pratica terapeutica, una bolla di felicità, appunto, in un mare di terribile quotidiano.

Ed è grazie a loro che si riesce, alla fine, a trovare una risposta alla domanda di partenza: la felicità è possibile solo come impegno, scelta – l’etimo nascosto di eresia. «La felicità non si compra, non vi cadrà dal cielo; nessuno, là in alto, ve la farà trovare davanti già pronta. Dovete lottare, dovete scegliere la felicità, soprattutto quando attorno a voi non vedete altro che difficoltà e muri”, conclude Marco Martinelli.

Sarà un po’ per questi discorsi mattutini, sarà per gli abbracci che già cominciano a non poter contarsi più, sarà per il numeroso pubblico al Castello, che via via, in questi giorni, è andato aumentando; c’è qualcosa di sospeso a mezz’aria, e lo avverte stasera chi ha potuto seguire, giorno per giorno, la trasformazione dello spettacolo.

I ragazzi urlano i versi per l’ultima volta, con le lacrime agli occhi. Marco chiama il pubblico ad entrare nel coro, invita tutti i presenti a partecipare, e la gente accorre. Le magliette gialle si diluiscono in un mare multicolore, creando un coro pubblico, ancora più potente. Signore milanesi e giovani inglesi ripetono i versi come meglio possono, si guardano in faccia e ridono come bambini.

Poi l’ordine: si parte all’assalto del Duomo. I non-scuolini si ricompattano, si arrampicano sui ciglioni dei fossati, all’avanguardia della grande parata. Compare una bandiera verde, segnata da una grande spirale patafisica: la bandiera dei palotini di Jarry, forse. Attraversano piazza Castello, ne lambiscono la grande fontana, i turisti scattano foto e battono le mani, senza avere la minima idea di quello che sta succedendo. Qualcuno si tappa le orecchie quando, al megafono, i corifei continuano a sgolarsi e a lanciare i loro gridi di battaglia.

 

Martinelli Eresia a MilanoI fantasmi di una rivoluzione dello spirito, che non ha niente di quel grigiore ripetitivo tipico degli assembramenti politicizzati, niente di quello spirito di fazione che aleggia tra i barricaderi e i professionisti delle piazze. Si urla contro il mondo della monotonia, della noia, del cinismo, non contro qualcuno; si urla alla gente, ad altri compagni di carne come tutti; si urla per svegliarli, per spronarli a quella assurda rivoluzione della felicità di cui sono i portavoce e per mostrare come sia possibile ottenerla, subito e semplicemente, ascoltando le parole di un poeta.

Si scende per via Dante, le forchette dei turisti nei ristorantini di lusso si abbassano, si alzano telefoni e macchine fotografiche. I camerieri in bianco guardano divertiti, si prendono finalmente una pausa. Qualche donna di mezz’età non sa se spaventarsi o ridere quando parte il verso di accusa e un ragazzino di dieci anni le urla in faccia: «Beato chi ha potuto almeno una volta, chiudendo gli occhi, dimenticarvi tutti, inutili come un raffreddore, sobri come l’acqua minerale».

Marco è alla testa del corteo, i corifei appena dietro di lui, e poi il grande coro, che si è arricchito di nuovi ospiti, nuovi marcianti, saremo in trecento, forse di più. Ci si lascia alle spalle l’ellisse di piazza Cordusio, con le sue banche, le grandi assicurazioni, i giovani in giacca e cravatta che sbuffano, appena usciti da lavoro, e rimangono bloccati nel traffico a causa del grande serpentone giallo.

Si imbocca la medievale via dei Mercanti. I ritrattisti ambulanti al fianco della strada ridono, posano la matita, e i turisti in posa rimangono immobili, imbarazzati, seguono con gli occhi la parata. Si sorpassano i grandi archi del Palazzo della Ragione, la scrofa mediolanata, e si arriva finalmente al Duomo. Qui ci si ferma, al cuore della città, mentre il coro dei non-scuolini diviene il centro della piazza e degli obiettivi dei telefoni; e per un attimo, la grande città lombarda si ferma ad ascoltare, sceglie la felicità.

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