Allenatore della Teodora che vinse undici scudetti
Riportiamo di seguito l’intervista fatta a Sergio Guerra un anno fa, in occasione del suo settantesimo compleanno.
Il 23 aprile 2014 ha compiuto 70 anni. Per l’occasione un pranzo in campagna. Quanti ricordi?
«Troppi. La coppa dimenticata a Salonicco in albergo è una. Poi quella trasferta in Olanda in cui una delle ragazze si rese conto di non aver imbarcato la borsa e abbiamo dovuto comprare tutto là. Oppure quella volta che una ragazza arrivò in ritardo e mi disse che non trovava le mutande e si era messa quelle del fidanzato. La trasferta di Tirana fatta con due aerei charter senza fermarci nemmeno un momento perché avevamo paura».
«Avevo una squadra molto furba. In altezza le mie erano delle nane: a Salonicco entrarono in campo dietro le russe e non si vedevano. Ma erano molto tecniche. E siamo stati capaci di ottenere risultati oltre l’aspetto economico».
Che cifre giravano?
«Ricordo che cominciammo pagando mille lire per ogni allenamento, due ore al giorno. Poi quelle che non studiavano avevano un lavoro».
In quel decennio in Italia non avevate rivali.
«Solo in Coppa abbiamo perso qualcosa perché usavo le partite per le giovani e provare gli schemi. Qualche dirigente a volte ancora me lo rinfaccia».
Tra i segreti si è parlato di una famosa crostata di mele…
«Prima delle partite le ragazze venivano a fare merenda a casa mia e mia moglie faceva una torta. Era un modo per fare gruppo, tenere unita la squadra».
Vogliamo sapere i suo riti scaramantici.
«C’è stato un periodo in cui dopo ogni vittoria nei playoff mi compravo un maglione di Missoni. Alla fine erano parecchi. Qualcuno devo averlo ancora. Ma forse era una scusa buona con mia moglie. E poi in squadra non ho mai voluto la maglia 13 e la maglia 17».
Le è rimasto un rammarico in carriera?
«La sconfitta a Roma contro l’Olanda quando allenavo la Nazionale e quindi aver perso l’accesso alle Olimpiadi. Mi sarebbe piaciuto farle…».
«Mi convinse Alvaro Ancisi. Ma mi sono accorto in fretta che non era il mio posto: entrai in consiglio comunale e se i comunisti facevano una proposta che mi piaceva io la sostenevo, invece me ne dicevano di tutti i colori i miei compagni di partito».