Caroli e l’arte vista dai grandi maestri

Lo storico ravennate, volto noto della tv, presenta Il suo nuovo volume: «La critica italiana è la più futile, lavora per il mercatino…»

La storia dell’Italia è la storia della sua arte. Non tutti però la raccontano allo stesso modo, per questo c’è chi ha voluto ribadire quale sia la “vera” storia dell’arte italiana, che non è quella delle aste, e nemmeno quella dei musei chiusi, ma è quella delle opere viste e toccate da vicino. Flavio Caroli, ravennate di origine, è uno dei volti più noti tra gli storici dell’arte italiani. Docente universitario e divulgatore televisivo Caroli ha deciso di dare voce ai maestri della storia dell’arte con il suo nuovo volume Con gli occhi dei maestri che uscirà tra i Saggi Mondadori e che presenterà a Ravenna il 20 novembre alla Sala D’Attorre.

Qual è stata per lei l’importanza di avere buoni maestri?
«Per me hanno avuto una importanza decisiva, tutti, quelli che ho conosciuto e quelli che ho solamente letto. Per primo Longhi, che è il “nonno” di tutti gli storici dell’arte italiani, poi Arcangeli il “padre”, con cui mi sono laureato. Poi Graziani, che ha una storia straordinaria, era il primo allievo di Longhi, e morì a soli 27 anni nel ’43 dopo aver fatto dello cose fondamentali. Suo figlio, che era appena nato quando il padre morì, diventò poi mio grandissimo amico. Anche lui ebbe una fine infausta, perché morì suicida. Poi parlo di Briganti, maestro romano dell’eleganza della storia dell’arte. Morto Arcangeli c’era una insoddisfazione perché la scuola italiana stava diventando attribuzionista, a me non bastava. Io credo in una storia dell’arte delle idee, prima di tutto. Per questo per me è inoltre molto importante il lavoro con Gombrich, che contattai per proseguire questi studi assieme e che frequentai per tutta la vita. Da questo ceppo derivano tutti i miei studi.

Spesso i lettori si appassionano alle vite degli artisti, pare però che anche le vite degli storici dell’arte siano altrettanto interessanti…
«Assolutamente sì. Ognuno di loro a modo suo. Quando Bassani descriveva Longhi diceva “non sembra un professore, ma sembra un artista”. Graziani padre e figlio hanno storie da storici e da artisti. Arcangeli poi era un poeta! Briganti era un artista a modo suo, appassionato all’arte antica e anche a quella contemporanea. Gombrich era un artista mitteleuropeo, l’equivalente dei grandi scrittori inglesi della sua generazione».

Cosa caratterizza la linea che distingue la storia italiana dell’arte di cui lei parla dalla altre?
«Non esiste una storia dell’arte, ne esistono molte, perché ogni storico fa la sua. Quelle degli storici più autorevoli sono quelle più riconosciute. C’è chi dice la verità e chi racconta delle balle per avvalorare le proprie idee. Questo è il punto di fondo. La linea maestra Longhi-Graziani-Arcangheli-Briganti è la miglior scuola italiana. Come dice la fisica per due punti passa solo una retta, qui i punti sono quattro, ma la retta è comunque una sola. Si contraddistingue da altre scuole per il rapporto fisico con l’opera, un rapporto d’occhio che mantiene un rapporto di idee. La linea invece mitteleuropea è una linea di pure idee».

Insomma vuole dire che la scuola italiana è più concreta?
«Più concreta lo era ai tempi di Longhi e Arcangeli, poi è diventata la più futile di tutte. Finita quella grande scuola, gli storici italiani hanno lavorato per il mercato, anzi per il mercatino dell’arte, come se fossero in un negozio di antiquariato».

Cos’è quindi per lei il ruolo dello storico dell’arte? O quale dovrebbe essere…
«Mark Bloch diceva che la storia dell’arte non è un corteo che passa davanti a noi, e lo storico non è quello che guarda questo corteo passare. Lo storico deve stare dentro il movimento e assumere notizie, che possono essere vere o false».

Lei è ora uno dei maestri…
«Questo lo lascio dire agli altri, faccio quello che posso cercando di capire il passato».

…che cosa direbbe ai suoi “allievi” che diventeranno i maestri di domani?
«Bisogna essere ambiziosi. Bisogna cercare di capire il senso della storia. È necessario fuggire dei giochino del para-antiquariato, giochino a cui si è ridotta la grande storia dell’arte italiana».

L’insegnamento dell’arte a volte si è arroccato nelle accademie, altre volte si è invece aperto a molti, fino ad arrivare ai grandi numeri della televisione…
«Sì, parlando di arte a Che tempo che fa siamo arrivati a tre milioni di spettatori. Lasciando da parte il mio narcisismo, questi numeri significano che molte persone sono interessate all’arte. Vogliono capire come siamo arrivati fin qui».

Quindi meglio uscire dalle accademie?
«Sicuramente sì. Quando l’accademia era altissima, come quella di Ronchi, era un conto. Oggi le accademie sono fatte da figure piccolissime, e lo dico da dentro, visto che insegno anche all’università».

In questi giorni ci sono state molte polemiche sulla chiusura dei monumenti e sulle condizioni di lavoro dei dipendenti. Che idea si è fatto a riguardo?
«L’Italia non si può permettere di tener chiuso quello che è la sua grandezza nel mondo. I custodi però dovrebbero essere qualificati e pagati bene!»

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