AAA Vendesi baracca per profugo nella Jungle di Calais

L’interesse di musei e collezionisti per il progetto di “sociologia visiva” nato in Francia da due ravennati che vivono in Belgio

Maria Ghetti è un’artista difficile da incasellare. Forse non vuole neanche definirsi tale… Forse si sente più a casa come sociologa visiva. Sicuramente fa parte di quella enorme tribù nomade di giovani di talento che abitano quest’Europa Ryanair. Classe 1988, ha vinto a Ravenna l’edizione di RAM 2013 “Transumanar e organizzar”, che aveva come tema proprio il nomadismo. Poggia i piedi tra Torri di Mezzano e il Belgio, dove è tornata a vivere dopo una breve parentesi in cui ha cercato di rimettere radici in città. Ha fondato con Marco Tiberio lo studio Defrost che ha appena prodotto un progetto che ha attirato l’interesse di molti musei, collezionisti, ma soprattutto del pubblico.

“Immorefugee” è un catalogo, ma è anche un’azione. Si ispira visivamente ai free press immobiliaristici che troviamo fuori dai supermercati, ma idealmente vende… case nel campo di Calais. Proprio quello, la Jungle, che è stata ufficialmente smantellata ad ottobre 2016, ma che in realtà è ancora, seppur in forma ridotta, sempre in piedi…

Raccontaci un po’ la nascita di questo progetto…
«Il progetto nasce due anni fa. Né io, né Marco lavoravamo con la fotografia all’epoca. Lui studiava Relazioni Internazionali a Lovanio e stava facendo un’interessantissima tesi sul conflitto in Azerbajgian. Interessantissima, ma noiosissima… Le tesi sono così, hanno un linguaggio talmente noioso che, anche se trattano tematiche straordinarie, nessuno ha voglia di leggerle. Per questo tutto il nostro lavoro si concentra sulla ricerca di un linguaggio che traduca queste tematiche politiche, contemporanee in un linguaggio comprensibile. Vogliamo toccare contenuti veri, ma non vendere qualcosa, per cui non ci interessa neanche il registro strappalacrime. Questo è un po’ il presupposto…»
E quindi come vi siete interessati a Calais?
«Noi abitiamo in Belgio e capita che un nostro amico viva a Calais. Così Marco incominciò ad andare a visitarlo e si incuriosì del campo. Da 15 anni c’era un accampamento di persone che voleva passare il tunnel della Manica perché pensava che le condizioni per gli stranieri in Gran Bretagna fossero migliori rispetto ad altre parti d’Europa. Calais è un imbuto, un punto dolente. È proprio un tunnel, senza metafora. Il passaggio è quasi più rischioso del Mediterraneo. Bisognava quindi assaltare dei camion, la polizia ti poteva aggredire. Se qualcuno ti caricava, rischiava anche lui. Questa piccola comunità viveva in una specie di baraccopoli provvisoria in un boschetto. Poi cominciarono i flussi intensi, il campo di Calais crebbe, diventando una sorta di città distopica. C’erano tantissime persone di tantissime culture in un unico spazio, con volontà differenti, aspettative diverse, credo e abitudini distinte. C’erano per esempio tanti afgani giovani che volevano attraversare a qualsiasi costo, perché penavano che di là ci fosse il paradiso, mentre i sudanesi, che avevano buone prospettive di ottenere la cittadinanza francese, costruivano abitazioni più a lungo termine… Questa specie di città era organizzata in quartieri, c’erano negozi, spazi pubblici come centri di formazione, chiese, moschee, biblioteche. Era una città primitiva. Che in Europa sembra impossibile pensare, ma che viveva a 150 km da Londra, da Bruxelles, da Parigi».
E cosa avete visto frequentando questo spazio così a lungo?
«Intanto Calais era la base, per attraversare il tunnel ci sono 15 km da fare a piedi e quindi chi stava nel campo, a seconda della volontà e del progetto, passava più o meno giorni in questa sorta di città temporanea. Questa volontà si vedeva nelle costruzioni abitative. Perché erano costruite con volontà e scopi diversi. Afgani e pachistani avevano tende decathlon, poco stabili perché provavano a passare il tunnel più volte. Altri invece si insediavano pensando a una presenza più lunga..La tua casa poteva essere presa da qualcuno mentre tu tentavi di attraversare. Oppure potevano scattare degli incendi e questo era terribile, perché i documenti nessuno se li porta appresso… A lungo poi non c’è stato nessun intervento esterno, alcune associazioni di volontari locali. Poi all’improvviso c’era stata la visibilità mediatica e sono arrivati tutti…alla fine anche le ruspe. E i container, che chiudono infatti il nostro catalogo. Un disastro».
Il progetto non si conclude solo nella realizzazione della rivista. Ma c’è anche una fase di testing online…
«Esatto. Puoi fare una sorta di ricerca di immobile su Immorefugee…è un ulteriore mettere il dito nella piaga. Una provocazione per noi europei su cosa vuol dire la casa. Cosa significa vivere la casa di un certo tipo invece di un’altra…quello che vogliamo noi lo cercano anche loro nello spazio dell’autocostruzione. Il nostro intento era quello di ridurre lo spazio di esperienza tra un europeo del benessere e chi vive questa situazione».
Come siete stati accolti da chi lì ci viveva?
«Frequentavamo il campo abbastanza spesso. Quando eri lì non era semplice, dovevi sempre essere introdotto da qualcuno, ma non era detto che quando tornavi quella persona ci fosse, o che tu riuscissi a trovarla. Tutto era però molto umano e, strano a dirsi, positivo. Tutta la gente che era lì, aveva un unico intento: migliorare la propria vita. Tutti i reportage che ogni tanto leggevamo ci facevano cadere le braccia. La goccia fu un servizio delle Iene, in cui veniva rappresentata una situazione da inferno in terra…. ecco, non era quello che avevamo conosciuto noi. Testimoniare quello che stava succedendo, cercando di non far trasparire quest’aspetto miserabile, senza dignità…. Non volevamo la pena. Alla fine forse non è quello l’importante. La pena, la compassione finiscono lì. La casa invece intesa come autocostruzione, come simbolo della cultura di ognuno, mostra il savoir faire di ciascuno, mostra la dignità, l’umanità, l’essere comune e simile. Tutti vogliamo una casa e la curiamo».
Tu provieni da una formazione di architetto. Credi che questo tuo occhio abbia influenzato questo progetto?
«Sì, sicuramente ha inciso. Dal punto di vista urbanistico direi. Come sguardo alla città utopica. Una cosa a cui mi sono rifatta molto sono Le città invisibili di Calvino. Di fatto la Jungle lo è stata. C’erano tutti gli ingredienti della città vera, strade, negozi…noi abbiamo fatto persino una presentazione, con power point e tutto… in una sorta di ristorante…Eppure non esisteva sulle cartine. Non esisteva come statuto di città, era invisibile agli occhi, circondata dalla polizia».
È molto interessante l’approfondimento che fai sul tema della visione satellitare dei campi rifugiati. Ci vuoi parlare anche di questo aspetto che stai monitorando?
«Calais era una città invisibile anche dal punto di vista satellitare: infatti le foto satellitari non erano aggiornate dal 2013. Si leggeva chiaamente una volontà di tenere nascosta questa cosa. Così abbiamo iniziato a monitorare cosa succedeva nel mondo negli altri campi. Mentre Calais al centro dell’Europa era nascosta e alla deriva, i campi Unhcr se li vedi dall’alto sono spettacolari. Sono costruiti con piano urbanistico. Con dei centri, si vede che c’è qualcuno che agisce».
Il vostro lavoro sembra avere come centro propulsore lo spaesamento, o meglio la miopia. Come se fosse una continua messa a fuoco per vedere meglio ciò che c’è… Ad esempio la campagna per promuovere la app GetCOO… Per non parlare poi dell’esilarante lavoro sulle rotonde di Ravenna…
«Forse è un po’ il nostro tema. E anche la questione sociale. Tutti i nostri lavori partono da questo intento: la ricerca sociologica è rischiosa, è facile che il messaggio non passi. Sono linguaggi che agiscono poco… Certo sono lavori impegnativi, Immorefugee è durato 2 anni. C’è una sorta di spaesamento anche nella grafica, che ha fatto Emilio Macchia. La forma e il contenuto non combaciano. Stridono quasi. Tanti ci hanno detto che dovevamo fare un bel libro di foto patinato…ma l’autoreferenzialità non ci interessa. Certo, è stato accolto molto bene: siamo stati anche finalisti a Kassel Dummy Award. Hanno scritto di noi Wired, Huffington Post, Il Post, The Atlantic, Pagina 99, Rolling Stone. Ci sono stati anche fraintendimenti, proprio per questa forma strana. Ci hanno preso per estremisti di destra (ride). Oppure qualcuno ci ha chiesto: “Davvero quando arrivavano sul campo i migranti sceglievano da questo catalogo?”….Domande assurde. Però vere. È anche un lavoro sul linguaggio. Il lavoro sulle rotonde di Ravenna, invece, ci ricorda che viviamo in un mondo nebulizzato. Siamo criceti che corrono dietro una palla.
Conosco bene Maria Ghetti, ma non so nulla di Marco Tiberio. Lo vogliamo almeno inquadrare?
«Di formazione è traduttore poliglotta. (quali lingue chiedo, e ricordo arabo, armeno, turco, francese inglese…), ha studiato a Lovanio, è di Ravenna, ma è scappato a 18 anni senza mai tornare davvero».

Maria è semplice nel linguaggio, diretta e determinata. Ti confonde, perché dietro questa apparente semplicità si cela un lavoro ironico, profondo, vero. Rende lampanti questioni che di solito affrontiamo con “è una questione complessa…”. Il sito di Defrost è uno scrigno di scoperte, comprate il catalogo e sciogliete la vostra testa, come mi dice salutandomi. Trovate tutto su http://www.defrostudio.eu/

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