Il primario: «Il Covid non si combatte in ospedale, serve un mese di vero lockdown»

Maurizio Fusari è il direttore della Terapia intensiva in provincia di Ravenna: «Nella seconda ondata si muore meno nel nostro reparto, ora occorrono più letti ordinari». I pazienti positivi al coronavirus occupano un terzo dei posti disponibili: è il tetto massimo

298dca07 Detailed V158394502431057@2xIl Covid non si combatte negli ospedali ma fuori, ostacolando la sua diffusione, e per questo solo la riduzione della circolazione e dei contatti fra le persone può dare risultati. È la sintesi del pensiero del dottor Maurizio Fusari, direttore del reparto Anestesia e Rianimazione per l’Ausl Romagna in provincia di Ravenna. Il medico non ha dubbi: le strutture ospedaliere del territorio non sono in emergenza ma un mese di vero lockdown da subito sarebbe la misura da mettere in atto. Posizione già espressa dall’Ordine nazionale dei medici.

Dottor Fusari, vista da dentro al reparto di terapia intensiva, com’è la seconda ondata rispetto alla prima?
«Ora conosciamo meglio la malattia. Abbiamo capito che non è solo polmonare ma è sistemica, colpisce tutto il corpo. Per questo va affrontata con un approccio multispecialistico. Abbiamo imparato a fare i tracciamenti e abbiamo visto che la maggioranza dei contagiati non ha sintomi, altri li hanno come un’influenza e solo pochi hanno bisogno di ricovero. Interveniamo con più anticipo sui malati sapendo meglio che farmaci non usare. Nella prima ondata i pazienti morivano di più in terapia intensiva dove stavano di più, adesso invece c’è più bisogno di letti di degenza ordinaria».

Com’è l’organizzazione del suo reparto?
«Abbiamo alcuni ambienti a pressione negativa per evitare che eventuali droplet escano dalla stanza. Ci sono ambienti dove possono stare anche due pazienti Covid perché sono intubati e non generano droplet ma non possono stare con altri. Il personale che accudisce un paziente Covid poi non accudisce un non Covid nello stesso turno con gli stessi dispositivi di protezione».

Coronavirus OspedaleCome è variato il numero di letti rispetto allo scenario pre pandemia?
«Un anno fa avevamo 26 posti letto fissi distribuiti tra i tre ospedali di Ravenna, Faenza e Lugo. Oggi di fatto abbiamo 8 posti in più: 4 a Lugo e 4 a Ravenna che sono semintensivi o di risveglio post chirurgico. La situazione è molto dinamica e per noi che lavoriamo non è facile ma ci consente di garantire la necessaria assistenza anche alla gente che ha altri problemi. All’11 novembre c’erano 13 casi Covid».

L’aumento dei letti è una risposta sufficiente?
«Non bastano le attrezzature per fare una terapia intensiva, quello di cui avremmo bisogno è altro personale: nei momenti più critici abbiamo avuto il supporto da altri reparti che andavano a velocità ridotta perché potevano procastinare le loro prestazioni senza causare danni alla persona».

La sanità locale ha le forze per affrontare l’inverno che abbiamo di fronte?
«In Romagna non credo che arriveremo al default come è successo in Lombardia o a Piacenza. Abbiamo ancora delle riserve da distribuire. Però il personale arriva stanco a questo momento: ferie e riposi sono saltati in primavera perché c’era da affrontare l’epidemia lancia in resta, in estate sono stati ridotti al minimo per cercare di recuperare i ritardi accumulati su altri fronti e ora torniamo di nuovo sotto pressione».

Ospedale Di RavennaLe indicazioni ministeriali sono di non superare la soglia del 30 percento dei letti di terapia intensiva per i pazienti Covid in modo da avere margini di manovra per il resto dei pazienti. È così?
«Al momento attuale sì. Potrebbe essere necessario modificare questa percentuale perché l’andamento epidemico è variabile».

Le limitazioni attuali alle attività commerciali e alla circolazione secondo lei sono sufficienti?
«I virus non hanno zampe e non hanno ali, non camminano e non volano: li portiamo in giro noi, quindi riduzione spostamenti uguale a riduzione diffusione. Semplice. Per questo penso che servirebbe un mese di lockdown vero, senza gente in giro. La lotta a questo virus ha un aspetto di socialità collettiva che è quasi sessantottina: i dispositivi di protezione sono strumenti di collettività. Il Covid non si combatte e non si vince in ospedale, se fosse così sarebbe una battaglia persa: la tracciatura dei contatti fatta dall’Igiene pubblica e il trattamento dei paucisintomatici fuori dagli ospedali sono sforzi enormi e fondamentali».

Si attende il vaccino. È fiducioso?
«Stiamo correndo verso il vaccino, stiamo cercando di restringere a due anni una procedura che abitualmente ne richiede sette o otto. Questo ha anche dei rischi ma se stiamo fermi stiamo già vedendo cosa succede, non possiamo permettercelo. Se mi verrà ordinato di farlo perché sono un sanitario lo farò per spirito di servizio anche se non saranno ancora disponibili dati di efficacia ottenuti da sperimentazioni su grandi numeri. Tecnicamente, mi aspetto un vaccino affidabile fra giugno e settembre 2021».

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