Quando chiuse l’Unità: «Non ero solo morta, avevo perso la mia identità»

Una testimonianza della giornalista Fransceca De Sanctis, ospite al teatro Rasi

FdesanctisorizzontalePubblichiamo un breve stralcio tratto dal romanzo di Francesca De Sanctis, “Una storia al contrario” (Giulio Perrone Editore 2020), una vicenda privata che diventa storia di una generazione. In questo passaggio l’autrice (giornalista e critico teatrale) racconta cosa si prova a perdere il lavoro e ripercorre quegli attimi in cui ormai la decisione è presa: l’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci e per il quale Francesca lavorava dal 2002, interrompe le pubblicazioni.

De Sanctis sarà protagonista della giornata di domani (1 maggio) al teatro Rasi di Ravenna.

«Per l’Unità è finita oggi, ma hanno iniziato a ucciderla due anni fa. Noi non siamo mai stati indifferenti. Noi li odiamo gli indifferenti».

Finita l’assemblea sono tornata in teatro. Guardavo gli spettacoli con gli occhi gonfi di lacrime. Incontravo i colleghi delle altre testate e se mi chiedevano: «Come va?», io non rispondevo. Solo a un certo punto, quando ero già seduta in platea, ho sussurrato a un collega: «L’Unità cessa le pubblicazioni». Lui mi ha guardato con un’aria impietosita, ha iniziato a farmi delle domande, poi le luci si sono abbassate e lo spettacolo è iniziato. 

Mi sentivo fuori posto. Volevo tornare a casa, o almeno in albergo. Scrissi qualcosa su Facebook, annunciavo la sospensione delle pubblicazioni senza nascondere l’amarezza che provavo, il senso di vuoto che all’improvviso mi aveva colto, la disperazione nel perdere per la seconda volta il lavoro. Rimasi sveglia a lungo quella notte del 2 giugno 2017. Ripensai a tutte le cose belle, ed erano così tante. 

Ferita per la seconda volta. Uccisa insieme al mio giornale, l’Unità, e a tutti i suoi lavoratori, una trentina di persone tra giornalisti e poligrafici. In quell’oceano popolato di pesci grandi e piccoli, di ogni specie, non mi sentivo solo spaesata, ma diversa, marchiata, anonima. Ero stata privata di qualcosa di molto prezioso, il mio diritto al lavoro. E non potevo far niente per cambiare le cose.

Durante le mie poche ore di sonno sognai. Ma al risveglio non riuscivo a ricordare esattamente cosa. L’unico dettaglio che ricordavo era che nel sogno vedevo tutto sfocato. Sogni simili li avevo fatti molto tempo fa, prima che subissi l’operazione agli occhi per curare la miopia. In pratica nei miei sogni vedevo allo stesso modo in cui vedevo quando non portavo gli occhiali. Strano, pensai, tornare a fare quel tipo di sogno ora. Barcollavo, allungavo le braccia in cerca di un appoggio, non riuscivo ad avanzare perché avevo paura di cadere. Era così, stavo cadendo. 

Il giorno dopo, al mio rientro a Roma, passai in redazione per prendere delle cose che avevo lasciato lì. 

In realtà, tornai più volte nei giorni successivi. Avevo parecchi libri da portare via, ma soprattutto quella era la mia casa e io non riuscivo a farne a meno. Finché non ci hanno dato un ultimatum: sgomberare tutto entro la prima settimana di agosto. E così, il 4 agosto, andai per l’ultima volta in via Barberini, inscatolai tutto e con l’aiuto di Giampiero caricai i pacchi in macchina. Nel frattempo l’azienda si era affrettata a cambiare la serratura. Non aveva perso tempo a sbatterci fuori. E non solo. Ognuno di noi, nel raccogliere le proprie cose, doveva appuntare su un foglio di carta bianca l’elenco esatto di tutti gli oggetti che portava via: penne, libri, temperini, block notes, fotografie, quaderni pieni di appunti scritti fitti fitti, cartelle stampa. Ecco cosa rimaneva di me nelle stanze che mi avevano accolto negli ultimi due anni. Solo un elenco, composto da poche parole incolonnate. Che lasciai sulla mia scrivania. Salii in macchina e passammo per via Barberini. Guidava Giampiero, io guardavo fuori dal finestrino e mi tornò in mente una storia. Da piazza Barberini diversi secoli fa partiva un carro che trasportava i cadaveri sfigurati. Era una sorta di corteo funebre con varie tappe perché qualcuno potesse riconoscere l’identità di quei morti. Non ricordo chi mi aveva raccontato questa storia, nemmeno se l’avevo letta in qualche libro, ma sapevo che in quel momento parlava di me: non ero solo morta, avevo perso la mia identità. Chi mi avrebbe riconosciuta?»

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