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«Con la pandemia più persone hanno capito l’importanza del giornalismo di qualità»

Francesco Costa, vicedirettore de Il Post, è convinto che crescerà la parte di pubblico disposta a pagare per l’informazione ben fatta anche online. Il giornalista dal 2015 racconta gli Usa con newsletter e podcast, sarà a Ravenna per presentare il libro Una storia americana

In una rassegna letteraria intitolata “Scritture di frontiera” non poteva mancare una puntata dedicata alla frontiera forse più nota per l’immaginario collettivo: l’America. Il 19 maggio nel chiostro della Biblioteca Classense di Ravenna (in caso di maltempo alla Sala Muratori, ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria qui) sarà ospite Francesco Costa, autore di Una storia americana (Mondadori). Il vicedirettore de Il Post dialogherà con Matteo Cavezzali, direttore artistico del festival Scrittura che organizza la serata con gli assessorati comunali a Cultura e Immigrazione.

Il secondo libro di Costa guarda all’ingresso del ticket Biden-Harris alla Casa Bianca e alla nazione di fronte a loro. Chi lo scrive si occupa di Stati Uniti da tempo e lo fa soprattutto con newsletter e podcast che sempre più stanno conquistando spazi. Costa ha risposto a qualche nostra domanda alla vigilia dell’incontro. È venuta fuori una chiacchierata di America, di serie tv sull’America e ovviamente di giornalismo e di nuove forme di informazione.

Costa, il concetto di frontiera, di confine, è stato molto toccato dalla pandemia. Abbiamo riscoperto i confini provinciali che avevamo un po’ dimenticato, addirittura abbiamo scoperto che può essere invalicabile il confine della porta di casa. Usciremo dal Covid con un modo diverso di guardare alle linee che dividono spazi e territori?
«Veniamo da almeno vent’anni di invocazioni per avere frontiere e muri, non solo per bloccare i migranti ma per separarci da chi è diverso. La pandemia ci ha ricordato che non è possibile ma nemmeno auspicabile: le frontiere rigide sono state un problema, ad esempio hanno influito sulla competizione per i vaccini. E ci siamo anche accorti che il virus va debellato ovunque se vogliamo uscirne perché non ci sono frontiere che bloccano la sua circolazione. Penso che vedremo accelerare fenomeni e processi già in corso».

La frontiera nel contesto degli Stati Uniti ha sempre avuto un significato particolare. La nuova amministrazione che approccio avrà sul tema?
«Biden sta cercando di superare una frontiera che Trump aveva innalzato rispetto al passato del Paese, per riscattare l’immagine chiusa e bigotta che non accoglie gli immigrati. Ma non lo fa per fare un favore agli stranieri, lo fa per fare un favore a loro stessi, alla loro storia di popolo accogliente».

La sua newsletter “Da Costa a Costa” per raccontare l’America è partita nel 2015, poi è nato un podcast e poi due libri. Qual è stata la caratteristica più difficile degli americani da spiegare agli europei?
«Tendiamo a dimenticare che gli Stati Uniti sono un Paese molto giovane: un paio di secoli di vita sono niente in confronto alla storia dell’Europa. Questo fa sì che ci sia una certa ingenuità nella cultura americana: il risultato è prendere enormi cantonate ma al tempo stesso c’è l’energia di prendere in mano il futuro. In America non esiste il concetto “si è sempre fatto così”».

“Da Costa a Costa” avrà una quinta stagione?
«Prima a poi tornerà ma non quest’anno, forse in vista delle elezioni di metà mandato. Ora sto iniziando a lavorare al libro che uscirà a Natale 2022: sarà la chiusura della trilogia sugli Stati Uniti».

Kevin Costner in Yellowstone

A proposito di stagioni, c’è una serie tv attuale che più di altre vale la pena per capire l’America?
«Tra le cose più recenti direi Yellowstone (in Italia su Sky, ndr) perché mostra l’America rurale dell’ovest fatta di una natura incredibile e non è quella delle città a cui siamo abituati: unisce il passato al presente perché in America ci sono persone che fanno i cowboy nel 2021, con tutto quello che vuol dire farlo ai giorni nostri. Per la fotografia della politica invece West Wing rimane la migliore, anche se ha vent’anni».

Francesco Costa a Faenza nel 2019 in occasione di Post Talk (foto dal profilo Ig del giornalista)

La sua newsletter oggi conta 52mila iscritti. È una comunità che si riconosce attorno a un tema e che, fino a quando era possibile, partecipava numerosa ai suoi eventi pubblici (come a Faenza per Post Talk). È un rapporto utile anche per lei?
«Tantissimo. Ricevo tantissime segnalazioni o dettagli aggiuntivi a quello che scrivo in una newsletter. Ho qualche decina di iscritti residenti in America e loro sono diventati anche fonti per storie e approfondimenti. All’inizio magari sono solo indizi, poi possono diventare approfondimenti».

Come si verifica la risposta di una persona qualunque fra 52mila persone qualunque per farla diventare una fonte?
«Scambiare qualche considerazione può servire per capire se si a che fare con uno sciroccato. Poi si cercano riscontri a quello che dice, se si trovano altri in linea allora diventa qualcosa che inizia a prendere forma…».

Newletter e podcast oggi sono strumenti diffusi, ma quando ha iniziato lei erano prodotti di nicchia. È stato lungimirante o fortunato?
«La fortuna c’è stata. Ma ho puntato su qualcosa che stava già funzionando sul mercato americano che è sempre un passo avanti sulle tendenze giornalistiche e di solito quello che si sviluppa là prima o poi arriva anche da noi. Non mi sono inventato nulla».

Muoversi in anticipo le ha concesso qualche vantaggio?
«Mi sono potuto permettere di imparare facendolo. Adesso anche in Italia c’è un mercato più maturo, con aziende che producono solo questo materiale. Sarebbe impensabile esordire con qualcosa del livello delle mie prime puntate con voce e montaggio un po’ improvvisati».

Francesco Costa, vicedirettore ilPost.it

Perché i podcast tirano?
«Oggi si combatte una guerra quotidiana per conquistare l’attenzione delle persone: se la contendono i giornali, i social media, Netflix, i videogiochi… e i podcast sono l’unico mezzo di informazione che non ti chiede il monopolio dell’attenzione. Puoi ascoltarlo mentre stai guidando, stai correndo, stai cucinando, stai facendo la doccia…». (il 17 maggio è partito Morning, podcast quotidiano curato dallo stesso Costa).

Stanno cambiando il modo di fare giornalismo?
«Il modo di farlo direi di no: l’attività giornalistica resta sempre l’indagine della realtà per capire e conoscere meglio cosa succede in una città o in un governo. Quello che stanno cambiando è il tipo di linguaggio: non sono un testo scritto dove puoi tornare indietro e rileggere, devi farti capire bene al primo ascolto quindi costringono noi giornalisti a utilizzare un linguaggio diretto, comprensibile, che non sia per iniziati».

Il lavoro “Da Costa a Costa” ha introdotto un modello di business: ai lettori viene chiesto di contribuire economicamente per un prodotto che continuerebbero ad avere comunque gratuitamente. Un modello che avete adottato nel 2019 anche a Il Post. Per entrambi risultati positivi. Diventerà la strada per tutti?
«Credo sia il modello per far reggere il giornalismo. Non c’è nulla di scandaloso nel chiedere di pagare per qualcosa che avresti comunque gratis. L’informazione si è affermata in versione gratuita online ma questo ha portato a un’offerta scadente: per ottenere la disponibilità a pagare devi dare qualcosa di qualità, non i lanci dell’Ansa rimasticati. Per noi a Il Post è più facile perché siamo una struttura piccola, ci vorrà più tempo per avere una massa di lettori per consentire di reggere strutture come Repubblica o Corriere della Sera. Però non credo sia vero che non si possa tornare indietro rispetto al tutto gratis».

Può funzionare a qualunque livello, dal locale all’internazionale?
«Secondo me sì. Con tutti i distinguo. Io ad esempio vivo a Milano ma per il lavoro che faccio sono abbonato al New York Times ma a nessun giornale milanese. Per molti è vero il contrario. Sta al giornale produrre contenuti allettanti, tenendo conto che magari per il giornale locale c’è un rapporto con gli inserzionisti più stretto e potrebbe avere meno necessità di trovare altre linee di ricavi».

Il Post ha compiuto undici anni in aprile. Come siete cambiati?
«Eravamo 5 nel 2010, oggi siamo 35 con cinque assunzioni fatte nell’ultimo anno anche grazie agli ottimi risultati ottenuti nel 2020 continuando con la scelta di dare precedenza alla qualità in maniera maniacale».

Come è impostato il lavoro in redazione?
«Non abbiamo redazione tematiche, siamo una redazione unica e cerchiamo di essere molto duttili in modo che tutti siano in grado di fare le cose essenziali. Certamente abbiamo persone più propense su certi temi. Vogliamo usare un italiano comprensibile agli esseri umani, scriviamo quello di cui siamo sicuri e lo attribuiamo alle fonti, non ci basta che lo abbiano scritto altri per scriverlo anche noi. Questo significa che spesso arriviamo dopo gli altri ma quando arriviamo vogliamo essere sicuri di non dover fare correzioni. Capita anche a noi di sbagliare, lo riconosciamo e viviamo gli errori con molto dispiacere. Il lavoro di editing coinvolge tre persone: due rileggono il pezzo prima di essere pubblicato e la terza appena online per controllare che tutto funzioni».

Non è il giornalismo che fa articoli con le bozze dei decreti…
«Non critico la scelta di pubblicare le informazioni di una bozza se ritieni che sia qualcosa di attendibile. Ma devi spiegare molto chiaramente che si tratta di bozze. Invece troppo spesso siamo abituati a titoli che danno per fatte cose che non lo sono. E poi le conseguenze si vedono: come successe quando venne annunciata la chiusura dei confini della Lombardia nel primo lockdown».

Pochi articoli del Post sono firmati. Perché?
«Quasi nessuno è firmato. È una scelta ragionata, non siamo gli unici, lo fa anche l’Economist. Ci piace l’idea dell’identità del giornale prima di chi lo fa: non vogliamo che i lettori giudichino in base alla firma, ci teniamo che gli articoli siano indistinguibili nello stile, vogliamo avere un modo di scrivere che sia de Il Post. Soffochiamo sul nascere ogni velleità letteraria negli articoli».

La pandemia di Sars-Cov-2 lascerà cambiamenti nel giornalismo?
«Più gente ha capito le conseguenze della cattiva informazione perché la pandemia ha alzato la posta in gioco: qui si parlava di vita e di morte. Una bufala sulla politica estera dell’Egitto cambia poco ai lettori ma se scrivi che la vitamina C combatte il virus, poi la gente se ne accorge presto e in modo molto diretto. E con l’obbligo di stare chiusi in casa avevamo solo i media come fonti di informazione: non c’era più la possibilità di parlare con “l’amico del bar che sa le cose”. Più pubblico ha capito che c’è bisogno di fidarsi dei giornali e le sanzioni dei lettori per le cose fatte male sono più severe».