«Portiamo il Post tra la gente perché per noi la comunità dei lettori è importante»

Luca Sofri è il direttore del sito di informazione nato nel 2010: alla vigilia di una giornata di dibattiti con la redazione a Faenza il 21 settembre, ci ha parlato della testata che dirige, del suo approccio al giornalismo, dei difetti della stampa italiana e di nuovi modelli di business

Lucasofri

Luca Sofri, direttore de Il Post, sarà a Faenza il 21 settembre

Loro sono quelli con l’ambizione di spiegare bene le cose. Lo scrivono proprio in fondo ai titoli degli articoli che sono diventati quasi un genere: virgola e poi “spiegato bene”. La redazione de Il Post ha creato di fatto “lo spiegone” – dove nulla è dato per scontato e la notizia è contestualizzata – e porterà questo approccio al giornalismo dal mondo online a quello offline con una giornata di dibattiti e confronti a Faenza il 21 settembre (tutti a ingresso gratuito, qui il programma dettagliato). Alla vigilia abbiamo fatto una telefonata al direttore Luca Sofri.

Direttore, come nasce l’iniziativa?
«Come molte altre cose del Post nasce da lontano. Da tempo avevamo voglia di proporre un evento in cui portare i nostri contenuti anche offline».

Perché un sito con redazione a Milano sceglie Faenza?
«Per relazioni e conoscenze è capitato di parlarne con il vicesindaco Massimo Isola che si è incuriosito e a noi è sembrato che Faenza abbia la misura ottima per godere dell’evento e delle meraviglie di una città di provincia».

Uscire dalla redazione e incontrare il pubblico ha una ragione più divulgativa o più commerciale?
«La prospettiva commerciale c’è sicuramente, c’è chi la sa sfruttare meglio e chi peggio. Faccio un esempio dei primi: Wired ha spostato la gran parte dei suoi impegni sugli eventi, con il festival e gli spinoff, e meno sulla produzione del giornale perché dietro c’è un editore come Condè Nast che può costruire qualcosa con ricavi economici che aiutano a tenere in piedi il giornale. Per esperienza, perché mi occupo anche di altri eventi, tra la gente c’è la voglia di vedersi e incontrarsi con chi leggi sulle pagine di un giornale o di un sito per ascoltare cose interessanti e di contenuto. Noi lo facciamo con la nostra impostazione: pensiamo che le cose di qualità siano tali a prescindere dai temi e infatti ci occupiamo di molte cose».

Iniziative di questo genere si portano dietro anche il tema della comunità che si riconosce attorno a un medium. È una questione che vale la pena tenere in considerazione?
«Posso dire che per noi del Post è molto importante e lo è anche per molti altri. Ci sono certi progetti che raggiungono numeri talmente grandi per cui vale la pena anche se il rapporto è superficiale. Per progetti più piccoli come i nostri invece la comunità è una necessità e una scelta. C’è un capitale di complicità con i lettori costruito e ci siamo resi conto che poteva essere una forza economica».

Le comunità che si formano attorno alle testate possono diventare nuovi spazi di partecipazione civile che colmano la crisi di coinvolgimento dei partiti?
«Succede, senza dubbio. Non parlo di noi perché non è nelle nostre dimensioni. Ma quello che hanno costruito Zoro e Makkox con il loro programma “Propaganda Live” è molto illuminante e impressionante: ho visto il rapporto del pubblico con loro ed è lo stesso rapporto che è venuto a mancare con qualche riferimento politico. Molte persone, e mi ci metto dentro anche io, cercano e trovano un’alternativa a un’adesione a un’idea comune in cose che non hanno più a che fare con la politica esplicitamente ma implicitamente».

È un bene o un male?
«Come tutte le situazioni in cui costruisci aspettative poi le aspettative possono legarti le mani. La frase tanto abusata “I nostri padroni sono i lettori” non è in assoluto un indice di libertà perché si diventa succubi e molto meno indipendenti quando devi dare ai lettori quello che si aspettano».

Il mondo dei media da un po’ sta cercando il nuovo modello di business per reggersi, soprattutto online. L’abbiamo trovato?
«Mi pare sia ormai chiaro che non c’è il modello di sostenibilità economica che salverà il giornalismo, ci possono essere singole soluzioni o complessi di soluzioni che funzionano in determinati contesti con determinati lettori. Non credo ci sarà una soluzione che salverà tutti. La qualità è una priorità: un’informazione generalista costosa di una grande testata che non sa distinguersi sulla base di qualcosa si trova inevitabilmente ad affrontare il tema del lettore che si chiede perché pagare e contribuire se può trovare gli stessi contenuti gratuiti».

Su questo fronte Il Post da qualche mese ha lanciato una campagna di abbonamenti ispirata al modello del Guardian: si chiede al lettore di contribuire (80 euro all’anno) per avere contenuti di qualità che sono consultabili anche senza pagare. Sta funzionando?
«Sta andando bene e siamo soddisfatti anche perché siamo nella condizione privilegiata di un progetto di piccole dimensioni e costi tutto sommato contenuti quindi quello che fanno i numeri di questa campagna di abbonamenti riesce a essere molto rilevante e ci permette di fare investimenti come l’iniziativa di Faenza che speriamo diventi un modello di ricavo ma ha bisogno di risorse».

Cosa spinge il lettore a pagare per qualcosa che potrebbe avere senza pagare?
«Due eventi enormi come Brexit e Trump hanno fatto sì che tra chi sta online ci sia una nicchia di persone per cui l’informazione non è tutta uguale quindi può valere la pena un investimento su affidabilità e qualità anche se bisogna pagare. Negli Stati Uniti le testate hanno puntato molto su questo».

Il Post esiste da nove anni. Come sono cambiati i vostri lettori?
«Oltre alla maggiore capacità di distinguera la qualità, stanno tutti sempre di più sullo smartphone. Lo vediamo dagli orari di accesso: i weekend sono uguali agli altri giorni e agosto è uguale agli altri mesi».

Di sicuro quando avete iniziato i social erano meno presenti. I giornali si stanno facendo divorare?
«Il rapporto è molto in evoluzione. Facebook sta intervenndo per limitare il potere e la diffusione dei siti di informazione e questa che potrebbe sembrare una cattiva notizia invece ha fatto sì che i siti fossero meno dipendenti e cercassero più autonomia».

Lo stile del Post è quello di fare anche autocritica quando necessario. Perché i media fanno così fatica ad ammettere gli errori?
«Fanno fatica perché hanno la coda di paglia e la coscienza sporca. Nel giornalismo tradizionale c’è la consapevolezza dell’approsimazione con cui si fanno molte cose. È più facile confrontarsi con gli errori quando si pensa di aver fatto tutto il meglio possibile e non il contrario. Per ammettere un errore bisogna anche dire che si starà più attenti…»

Non risparmiate critiche a altre testate. I colleghi come reagiscono?
«Alcuni si offendono, altri sono d’accordo, alcuni si offendono ma sono amici e tollerano. Molti hanno consapevolezza dei limiti che sono dovuti in molti casi alla mancanza di risorse, non lo metto in dubbio, ma riguarda anche la cultura dentro le redazioni che non è mai stata di straordinaria accuratezza in Italia».

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