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Vaccini, l’esperto: «Ecco tutto quello che sappiamo sulla durata dell’immunità»

«Ma oltre i dati, il vero problema è il nostro egoismo, anche di fronte alla pandemia»

di Giacomo Farneti

Giacomo Farneti

La Covid-19, malattia causata dal virus Sars-Cov-2, è stata finora associata allo sviluppo di diversi e variabili livelli di anticorpi con attività neutralizzante, che possono cioè proteggere il nostro organismo dalla sindrome respiratoria acuta grave. È stato osservato come i livelli di anticorpi diminuiscano con il tempo ma la natura e la qualità delle “cellule della memoria”, che sono necessarie per produrre anticorpi sulla reinfezione, non sono state sufficientemente studiate. I Coronavirus sono agenti patogeni più grandi e complessi rispetto ad altri virus a Rna (ad esempio, sono quattro volte la dimensione del genoma del virus dell’epatite A) e, conseguentemente, la loro replicazione è maggiore; non è dunque una sorpresa che emergano varianti con sequenze genetiche differenti con un vantaggio selettivo aumentato (la capacità di adattarsi e di “colpire” in maniera mirata determinati soggetti), in un virus che ha infettato finora più di 173 milioni di persone nel mondo.

Alla fine del 2020, proprio mentre gli organi di controllo avevano approvato una serie di vaccini basati in gran parte sulla sequenza antigenica della proteina spike della “variante madre” cinese, sono state individuate diverse varianti che hanno aumentato esponenzialmente la trasmissibilità, la patogenicità, con la conseguente riduzione di immunità indotta, sia da una precedente infezione sia dalla somministrazione del vaccino.

Dunque, qual è la durata dell’immunità? Numerosi studi nazionali ed internazionali hanno cercato una risposta a questa domanda. Uno studio cinese ha testato la sieroprevalenza a lungo termine in circa 10 mila abitanti proprio della città di Wuhan: circa il 40% dei soggetti positivi alla presenza di anticorpi anti Sars-Cov-2 ha mantenuto per almeno nove mesi anticorpi neutralizzanti in grado di proteggere l’organismo dalla reinfezione. Data la relativa scarsità di anticorpi neutralizzanti sviluppati attraverso l’infezione naturale (ricordiamo quanto sia difficile se non impossibile prevedere la risposta anticorpale in ogni soggetto sano) lo studio rafforza l’importanza della vaccinazione nel controllo dell’infezione a livello globale. Altri studi scientifici stanno raccogliendo informazioni e dati riguardo al rapporto tra tipologia di vaccino, immunità indotta e sequenza specifica della variante in modo da calcolare l’attività neutralizzante degli anticorpi in chiave di protezione a lungo termine.

Attualmente la campagna vaccinale mondiale garantisce con ottimi risultati un netto calo di trasmissione del virus e una diminuzione considerevole di casi di malattia grave, ricoveri in terapia intensiva e decessi, tuttavia non ci sono evidenze scientifiche valide che indichino con precisione i tassi di reinfezione: uno studio danese definisce “rara” la possibilità di contrarre nuovamente la Covid-19 dopo una prima infezione, ma potenzialmente più probabile nella popolazione anziana. Emerge infatti che, rispetto alle altre ricerche effettuate che si basano sui dati delle sequenze genetiche, i dati sull’immunità naturale destano ancora preoccupazione: la protezione da una seconda reinfezione è stata accertata nell’80% dei casi esaminati, percentuale che scende al di sotto del 40% negli over 65. La maggior parte dei risultati che abbiamo ottenuto dagli studi scientifici eseguiti suggeriscono che le reinfezioni sono eventi rari e che i soggetti guariti dalla Covid-19 hanno un rischio estremamente basso; l’immunità naturale sviluppata dopo la guarigione sembra conferire ai soggetti analizzati un effetto protettivo che si protrae fino a 10-12 mesi. Questo dato è simile a quelli ottenuti grazie alle evidenze scientifiche sui vaccini attualmente disponibili. Tuttavia, l’osservazione statistica viene quotidianamente modificata dalla presenza delle varianti che obbligano ad una costante rapida rivalutazione genetica ed interventistica.

Attingendo ai dati nazionali raccolti nell’ambito della campagna nazionale di screening con tampone molecolare che ha permesso di monitorare circa l’84% della popolazione italiana, abbiamo verificato quanti connazionali contagiatisi nel corso della prima ondata (febbraio-giugno 2020) abbiano nuovamente contratto l’infezione nel primo trimestre di quest’anno: un tasso pari allo 0,78%. Un dato che ci ha portato a stimare una protezione maggiore dell’80% per i soggetti che si sono ammalati precedentemente. Ciò equivale a dire che, immaginando che dieci soggetti guariti entrino nuovamente a contatto con il virus SARS-COV-2, mediamente sarebbero meno di due a sviluppare una seconda infezione. Il risultato è in linea con quelli emersi da altri studi scientifici – inglesi, americani, australiani – che avevano stimato un rischio di poco inferiore all’1 percento.

Approfondendo l’analisi in uno specifico sottogruppo, come già detto, la protezione indotta dall’infezione è apparsa inferiore nella popolazione anziana, segno che gli anziani sono fisiologicamente più esposti al rischio di una reinfezione: un dato spiegabile ricorrendo all’immunosenescenza, processo attraverso il quale il sistema immunitario diventa meno “vigile” di fronte alle infezioni con il passare degli anni. Considerando che si tratta di persone fragili, i dati confermano l’importanza di rispettare tutte le misure per la prevenzione del contagio, anche se si è già entrati contatto con il virus. Un sufficiente grado di protezione sembra dunque permanere per 6-7 mesi dopo l’infezione; quanto altro tempo ancora – eventualmente – duri l’immunità si potrà definire solamente quando avremo la disponibilità di campionare un numero importante di soggetti con criteri specifici e dati validi. Nel caso del virus responsabile della Mers in Medio Oriente, un calo degli anticorpi fu registrato a partire da cinque mesi dopo l’infezione, tendente verso lo zero nell’arco di tre anni.

A questo occorre aggiungere però che la protezione non è fisiologicamente conferita solamente dagli anticorpi del nostro organismo, ma anche dalle “cellule della memoria”, in grado di sopravvivere nel nostro corpo per tutta la vita ed innescare una risposta immunitaria ogni qual volta si ripresenti un agente patogeno con cui siamo già entrati in contatto. Risulta cruciale quindi, per prevenire nuovi contagi, la campagna vaccinale: qualora ce ne fosse ancora bisogno, questi dati confermano l’impossibilità di raggiungere un’immunità di gregge, poiché l’unica soluzione duratura è garantita non solo dall’immunità acquisita ma anche e soprattutto dall’immunità indotta. Questi dati dimostrano quanto ancora ci sia da imparare sull’immunità per il Sars-Cov-2 e, in generale, per i coronavirus, compreso il mantenimento dell’immunità indotta; saranno probabilmente necessari più tipi di vaccini per diverse categorie di popolazioni (bambini, donne in gravidanza, soggetti immunocompromessi ed anziani) poiché, oltre alla risposta immunitaria adattativa – ovvero quella acquisita – ci sono recenti studi che suggeriscono la possibilità che l’immunità naturale “allenata” – come accade per il virus dell’influenza – possa avere un ruolo molto importante.

Risulta fondamentale quindi che la ricerca si concentri sulla comprensione dei fattori genetici che determinano sia l’origine dell’infezione che lo sviluppo dell’immunità indotta, definendo in modo dettagliato e preciso le risposte immunitarie cellulari per stabilire il mantenimento dell’immunità protettiva dopo ogni infezione e dopo ogni vaccinazione.

Oltre ai dati, agli studi scientifici, alle evidenze pubblicate, ciò che rimane ancora personalmente inspiegabile è l’incapacità generale, di fronte alla “lente di ingrandimento” della pandemia, di creare nessi tra ragionamento, responsabilità e consapevolezza. Le tragedie vissute finora non sono state affrontate appieno come “catalizzatore” per cambiare i comportamenti sbagliati, per sviluppare coscienza in relazione ai pensieri immaturi e soprattutto per migliorare se stessi; le limitazioni non hanno aiutato a definire le priorità ma da un lato ci si è sentiti controllati e manipolati e dall’altro si è vissuto questa esperienza collettiva – forse la più importante del secolo – come una crisi delle abitudini e delle percezioni e, di conseguenza, come un obbligo alla trasformazione. I cambiamenti dei vari stili di vita, nonostante tutto, non hanno reso la popolazione italiana, europea e mondiale consapevole dell’importanza della collaborazione ma purtroppo ha chiuso ulteriormente ognuno nell’individualismo e nell’egoismo, spingendo e spronando alla collettività solamente in caso di protesta o negazionismo. Il valore di un Paese si esprime anche dall’attenzione al prossimo e l’impegno della scienza e della ricerca dimostrano quotidianamente i principi e gli ideali di abnegazione, indistintamente, nei confronti di tutti.

*Giacomo Farneti è un ricercatore ravennate, membro della task force governativa su Covid-19, esegue studi e ricerche per l’Istituto superiore della sanità