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«Rossi aveva il dono dei fuoriclasse. Ricordo il silenzio, dopo la morte del Sic»

Intervista al ravennate Giuseppe Triossi, fisioterapista nella Clinica Mobile per oltre quindici anni: «Avevamo salutato Simoncelli poco prima dell’incidente, fu una mazzata. La MotoGp? Un luna park. E ogni gran premio un brivido»

Una vita tra i motori, quella “passata” di Giuseppe Triossi, fisioterapista ravennate membro della Clinica Mobile del celebre dottor Costa dal 2003 al 2019. «Ho sempre avuto la passione fin da piccolo – ci racconta -, così quando sono diventato fisioterapista ho inviato una mail alla Clinica Mobile per poter vedere dal vivo il loro lavoro, carpire i loro segreti. Mai avrei pensato di ricevere invece come risposta un invito a partecipare a una sorta di selezione e, poi, di essere selezionato».

La gente comune spesso dice che i piloti non sono nemmeno degli sportivi…
«In realtà invece è uno sport faticosissimo, sia come preparazione fisica, sia a livello naturalmente mentale, di concentrazione. Personalmente posso dire di aver vissuto due periodi, quello con i piloti degli anni novanta che curavano meno l’aspetto fisico e quello della nuova generazione che invece l’affrontano in maniera molto specifica e professionale, con tanto lavoro in palestra. Si notano proprio le trasformazioni: più aumentano i cavalli e più aumentano i chili e la preparazione».

Quali sono i problemi fisici più diffusi tra i motociclisti?
«A livello di patologie, i problemi più frequenti sono legati agli avambracci: si induriscono, si chiama sindrome compartimentale, quasi tutti ne soffrono e la fisioterapia aiuta tanto. E poi tensioni al rachide cervicale. Dal punto di vista invece dei traumi, dovuti a cadute, i più frequenti sono quelli alla clavicola, o alla mano, scafoide in particolare».

E Valentino Rossi, che tipo di atleta era?
«Aveva quel dono naturale che hanno i fuoriclasse: sembrava gli bastasse un niente per essere superiore agli altri. La preparazione fisica non era comunque al primo posto per lui, a differenza per esempio di Dovizioso, che da questo punto di vista era maniacale. Valentino, per capirci, durante la settimana si concedeva anche una partita a calcetto tra amici. Aveva poi soprattutto una grande forza mentale, era capace di trovare la concentrazione anche solo negli ultimi dieci minuti prima di correre: ricordo come prima della partenza cercasse sempre “Controcampo” in tv per vedere la formazione dell’Inter…».

In che rapporti eri con Rossi?
«Avevamo prima di tutto un rapporto professionale, ma lui si fidava molto di me e in tante occasioni mi ha dato modo di pensare che si fosse instaurato anche un rapporto di amicizia. Ci sentiamo ancora e una volta all’anno ci vediamo. Ho dovuto interrompere in anticipo il rapporto professionale, invece, perché lavorare con lui significava vivere solo per quello».

Con tanto di chiamate notturne, immagino…
«È capitato. Come quella volte che era andato a provare la Ferrari di Formula Uno. O quando si è fatto male alla spalla nel 2010 a un allenamento di motocross; ricordo che avevo lasciato il telefono a casa e quando l’ho recuperato avevo qualcosa come 80 chiamate senza risposta».

C’è una vittoria di Valentino che senti più tua?
«Ricordo una gara di Laguna Seca, nel 2009 (quando Rossi ha vinto il suo ultimo Mondiale, ndr). Arrivò al giovedì con il collo completamente bloccato per un allenamento con il kart. Ci abbiamo lavorato tantissimo, anche 2-3 trattamenti al giorno. Il Gran Premio poi lo ha vinto, credo anche con un mio piccolo contributo, ma poi in pista ci andava lui…».

Aneddoti fuori dal circuito?
«Ricordo ancora quando sono salito in auto con Valentino e Uccio (Salucci, il suo miglior amico, ndr): per fare solo 5 km nelle campagne australiane, dal circuito all’albergo, fu come aver fatto un rally. Loro guidavano sempre come fosse una gara, prendendo le curve “di traverso”. E poi ricorderò sempre tutte le superstizioni del dottor Costa: una volta ci fece fare 20 km in più per rientrare in albergo in Germania, solo perché avevamo osato prendere l’uscita numero 13. Così come non si potevano mettere cappello e cappellino sul letto, o sul lettino della fisioterapia: portava sfortuna. Dovevamo spiegarlo ai piloti giapponesi, per dire, che non capivano il motivo».

E il mondo della Moto Gp?
«I primi anni sembrava tutto come un luna park: professionisti al top nel mondo, giornalisti, televisioni, personaggi dello spettacolo. Poi diventa routine. Ma ogni gran premio era una cosa speciale, da brividi lungo la schiena. E poi mi ricorderò sempre anche l’ambiente fuori dal circuito, gli sfottò tra piloti, il “Sic”».

Ecco, che ricordo hai di Marco Simoncelli?
«Era impossibile non volergli bene: era diretto, sincero; un bambinone. Marco era uno dei più presenti in clinica, gli piaceva l’atmosfera molto romagnola che si respirava, veniva anche solo per farsi due chiacchiere. Il giorno della sua morte ero là, in Malesia. Fu una mazzata terribile: l’avevamo salutato in Clinica Mobile solo pochi momenti prima. Ricorderò per sempre il silenzio del paddock, un luogo di festa, dove di solito c’è sempre casino. C’era tantissima gente, ma un grande silenzio…».