«Una buona campagna pubblicitaria può fare a meno degli influencer»

Da quindici anni a Milano, una 39enne di Solarolo è cofondatrice di un’agenzia di comunicazione che lavora su social e digitale: «È come un testimonial, non è necessario. Funziona se è spontaneo. E non sempre il profilo che cerchiamo è quello con più follower». Quanto si guadagna con post e storie su Instagram e Tiktok? «Difficile dirlo»

Pexels Omkar Patyane 238480«Se una campagna pubblicitaria funziona solo grazie a un influencer allora non è una buona campagna perché manca l’idea creativa. Però l’influencer adatto può essere l’aggiunta che trasforma un’ottima campagna in una eccellente». Le parole che inquadrano uno dei mestieri più inseguiti e sfuggenti di oggi sono di Michela Ballardini. La 39enne di Solarolo mastica pubblicità in campo digitale da un po’ di tempo, prima come copywriter e poi come responsabile di contenuti. Negli ultimi sedici anni Ballardini ha lavorato per diverse agenzie di Milano – seguendo clienti come Sanpellegrino, Fox, Nestlé e Folletto – poi nel 2021 è entrata nel team di Conic e con loro ha fondato l’agenzia Bico, dedicata all’ambito dei contenuti social e digitali, di cui è amministratrice delegata.

Partiamo dalle basi. Dal punto di vista di un’agenzia che costruisce una campagna per un marchio, che cos’è un influencer?
«È qualcuno che ha il seguito di una community e quindi è un mezzo per raggiungere una quantità di persone con un messaggio».

Andiamo subito al soldo. Quanto costa ingaggiare un influencer?
«Non c’è un tariffario, non esistono cifre predefinite. Di solito ognuno ha un minimo e un massimo e ci sono trattative. Per esempio, un profilo con mezzo milione di follower può chiedere 30-40mila euro per dieci contenuti suddivisi tra feed, storie e reel di Instagram e video Tiktok. Ma non è detto che chiunque abbia quei follower si muova per le stesse cifre».

Ballardini

Michela Ballardini, ceo dell’agenzia Bico (gruppo Conic)

Ogni campagna di pubblicità di qualunque brand ha bisogno di un influencer?
«No, sarebbe come dire che in ogni spot tv debba esserci per forza un testimonial. Dipende dalla strategia del brand, dai suoi obiettivi, dal budget e anche dal target. Per esempio se un brand ha un target molto molto ampio, è difficile che un unico influencer possa parlare a tutti. Allora in quel caso o si ha il budget per averne diversi per ogni target, oppure magari ha senso strutturare una campagna che non preveda influencer».

Come si decide se serve un influencer?
«Una compagna appoggiata solo sulla presenza di un influencer ha una debolezza creativa. Se devi spingere un rossetto e ti limiti a darlo a un influencer perché dica quanto è bello, non c’è un’idea creativa ma si basa tutto sul fatto che la sua community possa comprarlo per emulazione. L’ideale è immaginare una campagna che funzioni da sola e possa diventare eccellente con l’aggiunta di un influencer».

Come si individua l’influencer adatto?
«Un ruolo importante può averlo l’esperienza dei creativi. Poi ci sono agenzie specializzate che curano la gestione di più influen­cer, anche quelli che non hanno numeri enormi di follower. Si fornisce alle agenzie un brief più dettagliato possibile sul tipo di progetto, gli obiettivi del cliente, il tono di voce, lo stile del linguaggio e ti restituiscono delle proposte da valutare. Di solito viene anche presentata una reach stimata, cioè il numero possibile di persone che vedranno un contenuto, calcolato sulla base di precedenti contenuti simili quindi non è un numero scolpito nella pietra».

Pexels Pixabay 248533Cosa contribuisce ad avere una reach più o meno alta?
«Ci sono logiche che spesso restano sconosciute. Prendiamo l’esempio di Instagram: di recente l’algoritmo sta facendo tanti cambiamenti che molti influencer ammettono di non aver ancora capito. Ultimamente sembra che i reel vengano premiati molto di più rispetto alle storie o ai post statici perché Instagram si sta “tiktokizzando”: sta facendo scelte per avvicinarsi al social con cui è in concorrenza, come avevamo già visto quando aveva introdotto le storie per rispondere a Snapchat».

Un alto numero di follower è sempre il primo parametro che valutate nella scelta di un influencer?
«Il numero fa massa ma spesso è più interessante guardare l’engagement rate, il rapporto tra il numero di follower e quante interazioni fanno con i contenuti del creator. Esistono anche strumenti specifici capaci di valutare quanto è sano un profilo, per capire se ha acquistato follower».

Ma c’è una soglia minima di follower per ambire ad essere influencer?
«Potenzialmente potrebbe bastare anche un migliaio, si chiamano nano influencer e servono soprattutto per la promozione di attività locali che non hanno motivo di raggiungere persone distanti perché non saranno mai nel loro target. È un po’ come faceva una volta il pr della discoteca. Se però la zona di interesse è molto ristretta magari diventa più conveniente fare una sponsorizzata sui social dove hai la possibilità di definire i target».

Un profilo con molti follower, collezionati grazie ai propri contenuti, prima o poi verrà avvicinato da qualcuno per proporre sponsorizzazioni?
«Sì. Quando sei un megafono grande con una identità ben definita diventi per forza interessante per qualcuno che ha prodotti o servizi da promuovere. È successo così a Khaby Lame o a Mattia Stanga su Tiktok. E non sei interessante solo per i brand, diventi un oggetto del desiderio anche per molti editori che quasi certamente ti proporranno un libro perché sanno di averne una quota già venduta tra i follower. Ormai non c’è un influencer che non abbia fatto il suo libro…».

Pexels Prateek Katyal 2694434Instagram è contento che un brand investa soldi in un creator anziché nell’acquisto di spazi sponsorizzati venduti dal social network?
«Instagram è contento quando sulla sua piattaforma ci sono contenuti che tengono la gente con gli occhi sullo schermo. Quindi più tempo passa un utente a guardare contenuti, anche di influencer, e più pubblico avrà Instagram a cui mostrare le pubblicità da cui incassa».

Un influencer pubblica contenuti confezionati dall’agenzia o partecipa alla loro creazione?
«Più se ne occupa direttamente in prima personale migliore sarà il risultato finale perché aumenta la possibilità che venga qualcosa in linea con lo stile di quell’influencer e quindi percepito come più spontaneo dai suoi fan evitando l’effetto “marchetta”. L’importante è dare le coordinate precise all’influencer: se deve evitare certe parole per questioni legali, se deve tenersi lontano da certi ambiti…».

Quanto è credibile un influencer quando dice di essere utilizzatore di un prodotto o di un servizio?
«Se fa un contenuto a pagamento per legge va messa la dicitura “adv”, spesso sotto forma di hashtag, che sta per advertising. Se non c’è significa che sta proponendo qualcosa di sua iniziativa. Però ci sono anche altre formule. Per esempio “supplied by”: il caso classico è quello di un ristorante o di un albergo che invita un influencer perché possa provare un’esperienza. Non lo sta pagando ma lo sta ospitando, con la speranza che ne parli alla sua community. Oppure si inviano prodotti in regalo agli influencer, magari dopo aver chiesto qualche informazione sui loro gusti all’agenzia che li segue o a loro stessi, e poi si spera che ne parlino sui loro canali mettendo la dicitura “gifted by”. Il concetto cruciale è essere credibile: non puoi mettere una merendina in mano a un salutista e fargli dire quanto è buona, la sua comunità lo percepirà come finto».

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