Ci sono due occhi neri che mi tormentano da cinque mesi. Sono quelli di A., un ragazzo nigeriano salvato dalla nave Humanity 1 e sbarcato a Porto Corsini il 25 aprile.
A. mi è stato messo a fianco dentro la postazione della Polizia allestita al terminal crociere, perché in quel momento c’era bisogno di qualcuno che parlasse inglese. Le domande che traducevo per A. erano standard, sterili, rigide, come da protocollo. Lui rispondeva solo “yes” oppure “no” ma con quegli occhi profondi, persi e pieni di paura, nel frattempo mi consegnava la sua storia, mi chiedeva aiuto, mi urlava in faccia tutta la sua disperazione. Mentre eravamo seduti vicini, A. mi ha messo in mano una busta, mi ha chiesto di aprirla, di leggerla e di dire alla Polizia quello che c’era scritto. Nella busta c’era un foglio con una prima diagnosi psichiatrica scritta dai medici di bordo: disturbi del sonno, difficoltà ad alimentarsi, attacchi di panico, ansia, visioni di morte, istinti suicidi. Quando siamo tornati nella zona dove i migranti sbarcati ricevevano coperte, cibo e acqua, A. mi ha chiesto di stargli vicino. Mi guardava fisso negli occhi, aveva una smania di raccontarmi che cosa l’aveva spinto a scappare dal suo Paese, a raggiungere la Libia e poi a imbarcarsi per l’Europa. Non scriverò quello che A. mi ha raccontato, perché l’atrocità della sua storia, il suo terrore ma anche la sua fiducia in me, che fino a pochi minuti prima ero una perfetta sconosciuta, sono come un piccolo grande segreto che voglio custodire, che voglio rispettare. Io, per A., non ho fatto nulla. L’ho solo ascoltato, gli ho solo preso le mani perché credo volesse sentire un po’ di calore. Ma forse ha capito che poteva affidarsi. E io, che non sono nessuno, ho capito che stava lì, in quel sorriso che gli ho accennato mentre mi rovesciava addosso l’orrore, il senso di accogliere. “Sono qui A., ora sei al sicuro, è tutto finito, non devi più fuggire”.
Ci sono tanti A. nelle mie giornate. Spesso, per fortuna, meno traumatizzati. Spesso, per fortuna, meno bisognosi. C’è un altro A., per esempio, salvato dalla Ocean Viking e arrivato a Ravenna il 18 febbraio. Da grande vuole fare lo scrittore, sta imparando l’italiano alla velocità della luce. Una domenica di luglio, mentre ero di turno nella comunità per minori stranieri non accompagnati in cui lavoro, ci siamo messi a parlare di letteratura in cortile e mi ha sbalordita la sua forza. La forza di un ragazzo di sedici anni nato in una famiglia poverissima del Gambia, che è dovuto andare via per salvarla, la sua famiglia, che ha rischiato di annegare nel Mediterraneo perché è sempre meglio giocarsi la vita in mare che restare (se avete visto il film Le nuotatrici, sapete di che cosa parlo) e, nonostante tutto, ha ancora un sogno da alimentare, un sogno altissimo, forse irraggiungibile, ma pur sempre un sogno. Perché nessuno ti può impedire di sognare. E se qualcuno ti accoglie, e ti accoglie bene, forse sognare è anche più facile.
«Non sono abituati a desiderare, nessuno li ha educati a desiderare», ha detto una volta il pediatra Alessandro Volta a un incontro sui tutori volontari dei minori stranieri non accompagnati. A queste parole ripenso spesso, quando i ragazzi sono svogliati, all’apparenza persi e senza obiettivi. E ci ripenso anche come monito per il mio lavoro, per il nostro lavoro. Accogliamoli, sì. Ma poi innaffiamoli, come piccole piantine. E facciamoli fiorire. Coltiviamo sogni, insieme.
«Ça va aller», dicevano a G. gli operatori del centro di prima accoglienza che lo avevano raccolto a Marsala. «Ça ne va pas aller», rispondeva lui in preda ai dolori lancinanti alle gambe che lo tormentavano perché, sulla barca con cui era partito dalla Libia, era stato troppe ore nella stessa posizione, sotto il sole del giorno e nel freddo della notte, senza bere né mangiare. Adesso, quando incontro G. in giro per Ravenna, appena uscito dal lavoro e con un sorriso grande così sulla faccia, mi tornano in mente le sue parole. E mi viene in mente anche S., che se dicevi la parola Libia andava in iperventilazione, sveniva o si paralizzava. Ma un mese fa, insieme a G., un volontario di Refugees Welcome Italia che lo sostiene nel suo percorso verso l’autonomia è venuto a raccontare in un incontro pubblico che, se dopo aver visto l’inferno trovi qualcuno che si prende cura di te, le cose cambiano, eccome se cambiano.
Il 31 dicembre ero, insieme a molte altre persone, al primo sbarco della Ocean Viking di Sos Mediterranée a Porto Corsini. Quattro dei ragazzi messi in salvo sono stati, poi, inseriti nella comunità per minori in cui lavoro. Dove, fatalità, avrei lavorato nella notte. Per quanto spaesati, smarriti, infreddoliti, affamati, provati, sono arrivati all’ora di cena e si sono messi a tavola con gli altri, poi hanno giocato a tombola, poi hanno suonato le percussioni, poi hanno fatto brillare qualche scintilla in giardino a mezzanotte. Quei ragazzi, dopo qualche settimana, hanno preso altre strade, forse sono arrivati in Francia passando per Ventimiglia, forse hanno raggiunto qualche conoscente in altre città d’Italia. Quando riguardo le foto e i video di quella notte indimenticabile, al termine di una giornata incredibile per l’intensità delle emozioni coinvolte, quando vedo e risento i tamburi, i battiti di mani, le canzoni, penso che mi piacerebbe partisse sempre così, con quella botta di vita, ogni accoglienza. Che dovrebbe essere sempre l’ultimo giorno dell’anno quando un ragazzo solo, disperato, uno che è stato preso per i capelli, mette i piedi per terra, inizia una nuova vita e un nuovo viaggio in un Paese che non è il suo, dove tutti ci sentiremmo dei pesci fuor d’acqua, e vorremmo sentire solo una mano calda che stringe la nostra. E dei fuochi d’artificio nel cielo, sopra le nostre teste.
* Silvia Manzani è referente territoriale di Ravenna per Refugees Welcome Italia