Il filosofo femminista: «Il problema non sono gli uomini, ma l’idea di maschile»

Le riflessioni di Lorenzo Gasparrini sulla violenza di genere: «Le società cambiano in fretta, ma i paradigmi culturali no. La politica? non si fa carico di soluzioni a lungo termine»

Gasparrini

In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il centro di aiuto Demetra di Lugo ha organizzato un incontro con Lorenzo Gasparrini, “filosofo femminista”, divulgatore e autore di diversi libri – “Ci scalderemo al fuoco delle vostre code di paglia” (D Editore, 2023) è l’ultimo in ordine di uscita.

Gasparrini, di cosa si occupa un filosofo femminista?
«Di questioni di genere e di quanto queste impattino sulla società come complesso e sull’esistenza di ciascuno». 

Come è nato il suo interesse per il femminismo e le tematiche di genere?
«Quando ero uno studente di filosofia mi sono imbattuto in alcuni testi di filosofe femministe e ho scoperto che non solo dicevano cose importantissime sul mio genere, contrariamente a quello che sentivo dire, ma anche che questi argomenti erano pesantemente osteggiati dalle persone all’interno dell’università. Questo mi ha portato ad abbandonare presto la carriera accademica e a iniziare a fare divulgazione. E ho constatato che c’è un’enorme voglia di parlare di questi argomenti». 

Anche da parte degli uomini?
«Come no, certo. Se c’è stato un progresso in questi anni, questo è dato dalla fine dell’indifferenza su questi argomenti. Anche quando c’è polemica o discussione va bene, perché vuol dire che l’argomento smuove ed è l’inizio di un possibile dialogo».

Negli ultimi anni gli episodi di femminicidio sembrano essersi intensificati, o almeno si ha la sensazione che se ne parli molto di più. Cosa è cambiato rispetto al passato?
«La differenza è che adesso lo sappiamo riconoscere. Abbiamo una parola per nominarlo, tanto per cominciare. Abbiamo riconosciuto che è una specifica forma di violenza e di omicidio che conta non per il genere della vittima, ma per il motivo del gesto. Il fatto che un uomo arrivi a pensare che è giusto uccidere la propria compagna perché non si comporta come ritiene che una donna dovrebbe comportarsi è indice di una storia sociale di cui bisogna occuparsi. È evidente che se c’è anche solo un uomo che uccide per quel motivo ce ne saranno cento che picchiano, e per ognuno di questi ce ne saranno altrettanti che minacciano e ricattano… Eccola la piramide, l’iceberg di cui il femminicidio rappresenta la punta».

Le leggi non sono sufficienti per arginare il fenomeno?
«Se si vuole assottigliare la punta bisogna agire dal basso. Inoltre, servono leggi non solo nel senso punitivo e repressivo, ma che stimolino pratiche sociali diverse per fare fronte a questo problema». 

Ad esempio?
«Introdurre nel sistema dell’istruzione, a tutti i livelli – dalla scuola elementare all’università – l’insegnamento di queste tematiche. Per farlo, però, bisogna avere a disposizione tante persone preparate, e ad oggi non ce ne sono abbastanza per coprire tutte le scuole dell’obbligo. Si tratta di soluzioni a lungo termine, cosa che spesso spinge la politica a non farsene carico».

Quali sono le cause di questa cultura maschilista dilagante?
«Le società cambiano molto velocemente, ma i nostri paradigmi culturali no. Il problema non sono gli uomini di per sé, è l’idea di maschile che mi porto avanti culturalmente».

In questi giorni sta avendo grande risonanza mediatica l’appello di Elena, sorella di Giulia Cecchettin, in cui si fa riferimento, tra le altre cose, alla “cultura dello stupro”. Che cosa significa?
«È una cultura nella quale lo stupro è considerato qualcosa che può accadere perché visto come qualcosa che attiene alla sfera sessuale e frutto di irrazionalità, di un impulso. È importante ricordare, invece, che lo stupro è un meccanismo di potere, ed è l’apice di una serie di comportamenti e abitudini, come il complimento non gradito o la battuta fuori luogo, che da tanto tempo noi consideriamo come normali».

In alcuni uomini prevale la tendenza a prendere le distanze da tutto questo. Spesso si sente dire: “Io non sono violento, quindi non è un problema mio”. Perché questo pensiero è sbagliato?
«È importante dire a più uomini possibili che questa risposta non c’entra niente. Non importa quello che tu fai o non fai, importa il fatto che non fai niente. Se vedi una situazione di pericolo, qualunque essa sia, è tua responsabilità sociale dare l’allarme, intervenire. Se non fai niente sei parte del problema». 

Può il linguaggio giornalistico contribuire ad alimentare la cultura dello stupro?
«In Italia c’è ancora un problema di lessico corretto da usare in certe situazioni, cosa che non si riscontra allo stesso modo in altri Paesi. Non riusciamo a capire che espressioni come “bravo ragazzo” o “onesto lavoratore” non fanno altro che spostare l’attenzione del lettore là dove non dovrebbe andare. Chi fa giornalismo ha un potere enorme e deve usarlo correttamente, così come deve assumersi una responsabilità, altrimenti contribuisce a questo mancato progresso».

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