«Non basta la scuola per educare alla affettività, servono altri spazi aggregativi»

La dirigente Stamboulis: «Il tema deve essere affrontato in aula con i ragazzi, ma non per farne una materia. Come posso dire a una persona che è insufficiente in emozioni?»

Polo Tecnico Professionale Di Lugo 1 (1)

Elettra Stamboulis, a sinistra, durante l’inaugurazione di nuovi spazi didattici al polo tecnico-professionale di Lugo

Da settimane l’opinione pubblica, dopo i recenti casi di femminicidio, si interroga sulla necessità di intervenire nell’educazione dei giovani apparentemente incapaci di prendere contatto con le proprie emozioni e di esprimerle in maniera assertiva e non violenta. Qual è il ruolo della scuola in tutto ciò? A chi va la responsabilità dell’educazione all’affettività? Di questo abbiamo discusso con Elettra Stamboulis, dirigente del Polo tecnico-professionale di Lugo.

Preside, cosa ne pensa dell’introduzione dell’educazione all’affettività nelle scuole superiori?
«Alcuni aspetti che toccano questo nucleo tematico esistono già all’interno dei documenti ministeriali e ciascun docente è libero di accoglierli: quando si parla di letteratura, ad esempio, si parla anche di sentimenti. Tuttavia, ci sono altri due lati della questione da considerare: il primo è che la scuola italiana si è sempre tenuta un po’ alla larga da questa area, pensando che l’educazione all’affettività e alle relazioni fosse un territorio di competenza della famiglia; il secondo è che declinare l’educazione alle emozioni in un curriculum non è facile. Con quali strumenti professionali gli insegnanti dovrebbero farlo? Una questione ulteriore è la necessità di stabilire più chiaramente all’interno dei curricula che questo tema non solo si può, ma si deve affrontare con i ragazzi. Tutto questo, però, non con la finalità di farne una materia a sé che possa essere oggetto di apprendimento e valutazione. Come posso dire a una persona che è insufficiente in emozioni?».

Non basterebbe un corso di psicologia?
«In generale, credo che le materie scolastiche non possano essere una risposta. Pensare che la scuola possa esaurire qualsiasi tema che concorre a tracciare la crescita di un umano è chiedere troppo, secondo me. Qualche anno fa, quando insegnavo letteratura, durante la lezione un ragazzo mi interruppe dicendo: «Basta! Io voglio sapere che cos’è l’amore». A quel punto decisi di fermarmi, gli chiesi di spiegarmi meglio e poi modificai il programma per venire incontro a questa richiesta, proponendo letture e pellicole a riguardo. La generazione precedente a quella odierna, d’altra parte, ha avuto un’educazione all’affettività e ai sentimenti anche attraverso i film e i libri, ma se un ragazzo di oggi ha visto solo action movies è difficile fare educazione all’affettività».

E in più gli adolescenti non leggono, secondo i dati riguardanti la diffusione della lettura…
«Sì, o comunque per loro la lettura dei sentimenti deve passare per forza attraverso Renzo e Lucia dei Promessi Sposi, che avevano un codice sociale, antropologico e storico molto diverso da quello che i ragazzi si trovano ad affrontare oggi».

Quale potrebbe essere la soluzione?
«La scuola da sola non basta. I giovani hanno bisogno di spazi di aggregazione che siano i loro e che siano liberi, meno eterodiretti dagli adulti, in cui poter crescere con più responsabilità. Ho visto con i miei occhi quanto sia stato importante per i miei alunni partecipare ai lavori post alluvione. Quando i giovani trovano uno spazio in cui dare senso al loro essere qui, allora avvertono un senso di pienezza. I ragazzi che fanno volontariato, che riescono a trovare spazi di aggregazione diversi oltre alla scuola, affrontano lì gli aspetti legati alla sfera dell’affettività. Il problema è che sono in pochi, anche perché gli spazi aggregativi oggi sono molto limitati. C’è molta solitudine, e da soli non si cresce».

La solitudine è dovuta anche all’uso incontrollato dei cellulari e dei social media?
«No, il motivo è un altro ed è specificamente italiano. Il motivo per cui abbiamo iniziato a discutere nuovamente del tema dell’educazione alle emozioni è stato un femminicidio. Il fatto che vi siano stati coinvolti ragazzi molto giovani ha colpito molto l’immaginario collettivo, ma non dobbiamo pensare che sia colpa della tecnologia, perché allora la situazione sarebbe la stessa anche negli altri Paesi. Qui invece i femminicidi aumentano, il Gender Gap Index è tra i più bassi in Europa, e anche il fatto che la prima donna presidente del Consiglio consideri svalutante il fatto di farsi appellare al femminile, dal punto di vista simbolico impatta moltissimo sull’autosvalutazione femminile italiana. Anche gli studi sociologici ci parlano di una “epoca delle passioni tristi”, che la narrazione di una generazione senza futuro contribuisce ad alimentare. In tutto ciò, l’educazione civica che si fa a scuola non è male, ma c’è ancora tanta strada da fare».

Qual è il problema di fondo?
«La scuola italiana è impostata in modo non montessoriano. Considerando che Montessori ha aperto le prime scuole all’inizio del Novecento, dobbiamo considerare la situazione odierna un dato di arretratezza culturale. Anche le neuroscienze ci hanno confermato che la logica trasmissiva interdisciplinare e basata sull’esperienza e sui laboratori funziona, ma ad oggi non viene messa in pratica. Per certi aspetti, siamo tornati indietro anziché migliorare. Il nostro problema non è fare nuovi documenti ministeriali, basterebbe leggere correttamente quelli che ci sono e capire che lì ci sono già tutti gli strumenti per agire, se si vuole. Però bisogna sentirne la necessità, e a volte ho l’impressione che non si percepisca questa urgenza da parte dei professori».

Un paio di settimane fa, durante un’assemblea degli studenti del suo istituto, è stata pronunciata una frase che ha suscitato delle polemiche per il suo contenuto. Ci spiega cosa è successo?
«I rappresentanti di istituto degli studenti hanno deciso di invitare degli ospiti per discutere della cultura hip hop. Alla fine di 4 ore di incontri e confronti c’è stato un contest di freestyle, nel corso del quale è stata pronunciata la frase incriminata “Tua madre è come una cozza perché si apre”».

Come ha reagito a quanto accaduto?
«Non ritengo di dover fare niente nei confronti dei rappresentanti di istituto. Quello era il loro spazio, la loro assemblea. In più, sono stati eletti dai loro compagni, che non sono stupidi e saranno capaci di giudicare con la loro testa. L’Assemblea di istituto è uno spazio di libertà democratico che esiste dal 1974 ed è normato. Io sono più turbata dal fatto che ci siano persone che si sono preoccupate di questo, perché significa che non riconoscono in questi ragazzi la possibilità di essere soggetti, anziché oggetti. Sono adolescenti, faranno certamente i loro errori… e comunque non sono stati loro a esprimere queste parole».

In ogni caso, l’educazione alla sessualità e alle relazioni non parte da qui…
«Certo che no. Piuttosto, quello che si stava facendo lì era educazione alla cittadinanza vera. Loro stavano agendo i loro diritti di cittadini e di rappresentanti democratici. Inoltre, hanno anche capito quali sono i rischi che questo comporta. Hanno capito cosa significa essere intervistati da un giornalista, essere accusati di qualcosa nel dibattito pubblico, essere giudicati… Hanno fatto un’esperienza completa ed educativa. Anche se i genitori venissero da me, ripeterei loro quanto detto, cioè che i ragazzi, nel loro spazio di democrazia, sono liberi di esprimersi e io non sono tenuta a censurare quello che dicono».

EROSANTEROS POLIS BILLBOARD 15 04 – 12 05 24
CONSAR BILLB 02 – 12 05 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24