giovedì
19 Giugno 2025
divagazioni

Tutte le strade portano a “Vienna”

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Bicchiere Osteria

Inizia tutto in una serata del maggio 1992. Ho appuntamento con i miei compagni di liceo per una cena in una pizzeria di via Strinati, a Cesena. Mio babbo ha insistito per accompagnarmi dopo il lavoro e poi venirmi a prendere. È bizzarro, a pensarci, perché mio babbo ha un negozio in via Pescheria, cento metri scarsi da via Strinati, e davo per scontato che avrei dovuto arrangiarmi col motorino. Quando arriviamo nel posto, ovviamente per primi, mio babbo vede la pizzeria e tira un sospiro di sollievo. Aveva pensato che l’appuntamento fosse in realtà nel posto di fronte, che è un normalissimo bar, e che lui guarda torvo e parlando tra i denti perché – a suo dire – è frequentato da spacciatori, ladri e brutta gente. Non si trattiene e me lo dice: stai lontano da quel bar. E in quell’esatto momento, naturalmente, dal bar esce Fabrizio, compagno di classe e personaggio carismatico per cui nutro cieca adorazione. Fabrizio mi corre incontro e mi abbraccia, mio babbo sembra sul punto di esplodere. Fabrizio ha i capelli lunghi, i vestiti stazzonati (beh, anch’io, è il grunge) e un odore di sigarette ai limiti del nauseante che copre l’alito di vino. Era arrivato presto e si era andato a bere un bicchiere, dice, vuoi che ce ne beviamo un altro insieme? No, grazie, gli dico, non bevo alcolici. E lui si rende conto che il tizio di  fianco è mio babbo, e abbozza meglio che può. Poi arriva qualche altro compagno, mio babbo se ne va, e andiamo a bere un bicchiere di vino nel posto.

Inizia così, un po’ col botto, una storia d’amore che mi tiene ancora occupato: quella con il bar di provincia. Il bar di via Strinati, naturalmente, non differisce in nulla dagli altri bar. Ospita tossici avvinazzati, certo, ma anche gente tranquilla e primari di chirurgia, in nome di quell’ideale democratico che unisce i padri di famiglia romagnoli che la sera hanno bisogno di fuggire dalle beghe di casa (mio babbo è nel suo bar, esattamente identico a questo, cinque chilometri più giù). Aveste chiesto al barista un cocktail di qualunque tipo, si sarebbe chinato a piangere o avrebbe provato a menarvi con una mazza da baseball. Un bar di quell’epoca serve birra, vino e superalcolici. Qualcuno di tanto in tanto azzarda la sorte e chiede al barista un’aranciata. Il vino è di tre tipi: bianco, rosso e frizzantino (i colori della bandiera italiana, se la guardi da sbronzo). Viene distribuito alla spina o, nei posti di maggior classe, in bottiglie senza etichetta fornite da un contadino delle colline circostanti, grazie ad accordi bilaterali che non ho mai approfondito troppo. Viene bevuto perlopiù all’interno di un bicchiere di vetro senza manico, molto piccolo e con un fondo massiccio. Conosco il nome tecnico del bicchiere, anche se non so il motivo: si chiama “Vienna”. Lo conosco, ironia della sorte, perché mio babbo, quello che vuole tenermi lontano dagli alcolizzati di via Strinati, di lavoro vende piatti e bicchieri.

Qui serve un salto nel tempo, sei o sette anni. Una sera del  fine settimana, sono a casa della mia prima  fidanzata ravennate, qualche suo amico ci invita a bere un aperitivo. Cado dalle nuvole perché  fino a quel giorno la mia idea di “aperitivo” è mutuata dalle cene in collina con mio fratello, e in quel contesto “aperitivo” significa fermarsi al volo in un bar sulla strada per bere un prosecco, o un Campari, o più spesso un Campari-e-prosecco, per arrivare a cena già intossicati. Qui siamo in un posto alla Fornace Zarattini, c’è un buffet a cui si può prendere cibo  fino a che ti va, c’è gente elegante. Il cameriere mi chiede che vino voglio, rispondo ovviamente “rosso”, lui mi guarda strano e insiste con la domanda. La fidanzata mi guarda compassionevole e mi dice “che dici? Facciamo un morellino?”. Certo. Il vino arriva in un calice gigantesco che tutti quelli che sono nel posto tengono in mano come se fosse un melone da vendere a una massaia. Il calice potrebbe contenere quasi tutta la bottiglia, ma il barista me ne ha versato un dito. Pesco una quantità di cibo vergognosa, bevo tre o quattro bicchieri e bestemmio quando scopro il prezzo di ognuno di essi. Di qui inizia un cammino di conoscenza completamente diverso, da cui imparo tante cose e in cui spenderò tanti soldi.

Una ventina d’anni dopo quell’aperitivo alla Fornace Zarattini ho una conoscenza sommaria ma estesa della storia vinicola del nostro paese, sono in grado di comprare un vino decente al supermercato. Il bar cittadino democratico, nel frattempo, si è sostanzialmente estinto. Nel 1987 nessuno avrebbe aperto un bar per aperitivi a Cesena; oggi ci sono snack bar diurni, bakery, coffee lab, vinerie, gintonerie, brasserie ed enoteche. La parola apericena non spaventa più nessuno (giropizza sì, mi spaventa ancora, ma è un’altra storia). Sono tutti posti che valgono i soldi che ci ho speso dentro.

La possibilità che ci viene data dal mondo contemporaneo di poter bere birre con gusti diversi da quello della Peroni è, nella mia opinione, il massimo traguardo raggiunto dalla società civile italiana dagli anni duemila ad oggi. Ma nello strutturarci per accogliere queste novità, abbiamo avuto molto di rado l’occasione di prendere in considerazione le cose che abbiamo perso.

È ormai un’assodata verità storica che l’universo sia in espansione, e non c’è niente di meglio a rappresentare il concetto della differenza tra quei due bicchieri. Un calice per la degustazione di vino ha una capacità di circa 45 cl, quella di un Vienna (oggi gentrificato anche nel nome comune di “bicchiere da osteria”) ne contiene 13,5. Entrambi, paradossalmente, contengono la stessa quantità di vino. Il primo è studiato per essere riempito di un terzo ed accumulare aromi all’interno della cavità, il secondo viene riempito  fino all’orlo una dozzina di volte a sera, a suggerire che in quel momento lo spazio per decantare le questioni accessorie della tua vita sia fuori dal mondo e non dentro al bicchiere.

Le persone che bevono in un calice da degustazione hanno spesso pretese che mimano alcuni aspetti superficiali della loro esistenza. Vanno conquistate. Bevono vino perché le hai convinte a farlo, hai dato loro il plus che serve ad abbassarsi. Quelle che bevono in bicchieri da osteria, tendenzialmente, pongono il loro onore nel bere qualunque cosa, in qualunque condizione e in compagnia di chiunque. E anche oggi, quando ci fermiamo in uno dei pochi circoli Arci ancora aperti e stringiamo in mano quel bicchiere pieno di vino sentiamo ancora la vita pulsare fuori, come se ci chiamassero a sé e ci invitassero a perderci per sempre dentro di essi, collassati 24/7 su quei tavolini di fòrmica, come i nostri padri ci avevano in fondo preparato a loro tempo ad essere.

Fabrizio lo vedo ancora, quanto posso. Non spesso, ma regolarmente. Ci incontriamo per un pranzo o un aperitivo, mentendo alle nostre consorti e accampando impegni immaginari. Considero il mantenimento della nostra amicizia uno dei grandi risultati della mia vita adulta. Mio babbo a un certo punto il negozio l’ha chiuso ed è andato in pensione. Oggi via Pescheria a Cesena sembra un posto abitato dai fantasmi. Negli ultimi giorni aveva svenduto il possibile e radunato tutto il resto nella cantina di casa, un posto da cui per anni amici e parenti sono andati a fare incetta di piatti, stoviglie e bicchieri. I Vienna, purtroppo, erano  finiti da tempo. Mi disse che il giorno dopo l’annuncio della svendita si era presentato un tizio dall’aspetto poco raccomandabile e si era portato via tutto lo stock;  fino all’ultimo giorno passava gente a chiedere se ne fossero rimasti.

* Cesenate trapiantato a Ravenna, Francesco Farabegoli scrive o ha scritto su riviste culturali come Vice, Rumore, Esquire, Prismo, Il tascabile, Not

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