Dall’anoressia al “Binge eating”: come mi sono trasformata nel mio peggior incubo

Pubblichiamo una sorta di diario di una ragazza che ci ha voluto raccontare il proprio rapporto con i disturbi del comportamento alimentare. Con l’obiettivo di mettere in guardia altre ragazze come lei e i loro famigliari.

Capitolo 1: L’inizio

È iniziato tutto con una dieta. Avevo tredici anni e mezzo e frequentavo il terzo anno di scuole medie. Non occorre che descriva quel periodo: chiunque abbia vissuto l’adolescenza ne conosce i dispiaceri e le complessità. Io ne ho attraversato ogni aspetto, dal bullismo “soft” – quello che non agisce con il corpo ma con le parole – ai crudeli amori non corrisposti, con un’autostima già fragile e uno strato superiore della pelle non ancora inspessito dall’esperienza.

Sono cresciuta negli anni Duemila, gli anni di Twilight e dei jeans a vita bassa. Sono nata e cresciuta con l’idea che la bellezza – un certo tipo di bellezza, oggettiva e incontestabile – sia un valore, e che chi ne è privo meriti tutta la commiserazione del mondo. Soprattutto, sono cresciuta con l’idea, amplificata da pubblicità e passerelle, che magro è bello. Che se l’osso sporge e le cosce non si sfiorano tra loro, puoi ritenerti all’altezza di un certo standard. Diversamente, o ti condanni all’infelicità e al biasimo sociale, o fai qualcosa per rimediare. Perché essere grassi dà fastidio, e non solo alla tua immagine riflessa allo specchio. Dà fastidio anche agli altri.

Mi è sempre piaciuto mangiare. A soli tre anni rubavo il cotechino dai vassoi durante le feste in casa. Amavo il cibo, amavo la convivialità, amavo il senso di pienezza e calore di uno stomaco sazio e appagato. A un certo punto, evidentemente, ho smesso di amarlo.

Durante la primavera del 2010 cominciai a fare i conti con la mia inadeguatezza fisica. Pesavo 56 kg per 163 cm di altezza. Nei lunghi pomeriggi dopo la scuola, davanti alla tv e ai libri di testo, mangiavo tanti gelati e merendine. Lo facevo lontano dagli occhi degli altri, dato che passavo molto tempo da sola. A ripensarci adesso, era una situazione abbastanza normale per una ragazza della mia età. Ero golosa; tanti miei coetanei, allora, non si curavano delle calorie che ingerivano.

Io però decisi che dovevo darmi una regolata, dovevo cambiare. Ricordo che un giorno andai a scuola con un tristissimo pacchetto di cracker per merenda. Mi pesò tantissimo.

Da lì scattò qualcosa nella mia testa. Iniziai ad andare a correre e a perdere peso, prima lentamente poi sempre più rapidamente. Nel mio cervello deve essersi formata una strana equazione per cui meno cibo più allenamento uguale bellezza. E la bellezza, o per meglio dire la perfezione (soprattutto fisica, ma non solo) era tutto.

Camminavo per strada e cercavo ossessivamente la mia immagine riflessa nelle vetrine dei negozi. Mi chiudevo in camera a fare gli addominali senza tappetino e la schiena a contatto con la rigidità del parquet mi provocava lividi lun- go la spina dorsale. Scattavo fotografie ravvicinate dei miei denti e del mio naso per controllarne la forma e le irregolarità. Mi guardavo e mi ripetevo che facevo schifo.

Mi odiavo. E odiavo madre natura per avermi fatta in quel modo. Persi 8 chili in due mesi.
Iniziai a rifiutare categorie di cibo specifiche: prima i dolci, la pasta, il pane, poi il formaggio, la carne, i salumi. Alla fine, mi nutrivo di insalata scondita e poco altro. Riducevo al minimo le porzioni, conoscevo a memoria le calorie di moltissimi alimenti. Avevo il controllo, mi sentivo padrona del mio corpo, regina della mia volontà, più forte della mia stessa fame. In rotta verso l’autodistruzione.

Capitolo 2: La lotta silenziosa

Non è durata molto. Sono stata scoperta quasi subito.

Il percorso con i Disturbi del Comportamento Alimentare è iniziato ad agosto 2010 con una diagnosi di anoressia nervosa e la prescrizione di mangiare 100 grammi di cous cous.

Dato che ero minorenne, sono stati i miei genitori a decidere di portarmi dai medici per curarmi. All’inizio non ne volevo sapere, naturalmente. Avevo finalmente acquisito un potere sul mio corpo, non avevo fatto tanta fatica solo per vedermela portare via da estranei che mi dicevano cosa e quanto mangiare. Ma sapevo di avere un problema, e la resistenza che opponevo contrastava con il mio istinto di sopravvivenza.

All’improvviso mi sono ritrovata all’interno di un sistema di supporto ben strutturato. Ovunque mi girassi c’era una visita medica ad aspettarmi. Ho imparato a distinguere la psichiatra dalla psicologa, la dietologa dalla dietista. Agivano in equipe, come i fantastici quattro (le fantastiche, tutte donne).

L’inizio degli studi al liceo classico è coinciso con la mia presa in carico al Cmp di Ravenna. Mi ricordo molto poco di quegli anni, a parte le sedute di terapia e le temutissime pesate sulla bilancia.

È stata dura. Non ho mai vomitato e non sono stata ricoverata. Ho continuato a vivere la mia vita apparentemente normale con un piccolo mostriciattolo nella testa che rendeva grigie le mie giornate e pieni di ansia e paura i momenti che un’adolescente dovrebbe vivere con serenità e spensieratezza. I compleanni, la pizza con gli amici, il Natale con i parenti. Il disturbo alimentare ti toglie quella gioia lì, la gioia dello stare insieme. In più, ero sempre stanca e frustrata perché mi ammazzavo di studio. Ero una perfezionista, prendevo tutti nove e dieci a scapito della quiete familiare, dell’equilibrio psicologico, del rapporto con il mio ragazzo, delle uscite in discoteca con le amiche. Piangevo sempre, avevo perso la luce negli occhi. La psichiatra diede un nome alla mia profonda tristezza: depressione maggiore.

Gli anni del liceo sono passati così, con momenti belli e momenti molto brutti. A poco a poco ho ripreso a fare l’attività fisica che mi era stata proibita e a riabituarmi al gusto strepitoso del pane (ma quanto è buono il pane?). È stata una cosa graduale, complicata, sofferta. A volte fingevo di masticare e poi sputavo il cibo nel fazzoletto. A volte nascondevo tocchetti di formaggio nelle tasche dei pantaloni e poi me ne liberavo alla prima occasione. Durante le cene mi chiudevo in bagno per controllare che la mia pancia non fosse cresciuta a dismisura dopo il pasto. È stata una dura lotta: con mia madre, con la mia dietista, con la mia stessa mente. Facevo soffrire le persone che amavo e a una parte di me non importava, importava solo essere magri.

La psicoterapia, insieme a tutto il resto, mi ha salvato. Ho iniziato a liberarmi di un po’ di macigni, cercando di andare alla radice del male non per estirparlo ma per guardarlo in faccia e renderlo più piccolo, gestibile. Per conoscerlo. Così ha cominciato a farmi sempre meno paura; il disturbo alimentare, dopotutto, era un sintomo, non il vero problema.

A diciotto anni ho ripreso a stare discretamente bene, pur con una certa attenzione a non esagerare mai, con il freno a mano sempre tirato.

Nel giro di un paio d’anni mi sarei trasformata nel mio peggiore incubo.

Capitolo 3: La ribellione dello stomaco

Durante il primo anno di un’università sbagliata ho preso 30 kg. Dopo le lezioni mi abbuffavo di tutto quello che mi ero preclusa in precedenza, ero in piena modalità “mo’ ce ripigliamm’ tutt’ chell che è ‘o nuost”. Andavo al supermercato più vicino nella mia casa in affitto a Bologna, compravo esclusivamente dolci al cioccolato e una volta tornata in camera mia li mangiavo nel giro di dieci minuti, in uno stato di trance. Poi rimaneva tutto dentro, insieme al senso di nausea e di disgusto per me stessa.

Si chiama Binge eating disorder. Io pensavo di essere ingorda, incapace di darmi una regolata, di essere sciatta, una nullità. Invece ero semplicemente malata.

Non studiavo più. Mi ero diplomata con 100 e lode e non stavo facendo niente della mia vita a parte riempirla di cibo, cercando di placare il dolore aggiungendo strati di adipe. Faticavo a fare tutto, dal camminare al pensare. Sono andata avanti così per due anni.

Nel 2017 sono tornata a casa, a Ravenna. Sono ripartita da zero. Sedute di psicoterapia, gruppi di sostegno per persone nella mia stessa situazione, una nuova università. Senza strafare, senza pretendere risultati impossibili. Con i miei tempi, ascoltando le necessità.
E così ho iniziato a stare meglio.

Mi sono laureata, poi mi sono iscritta nuovamente all’università e ho preso una seconda laurea. Sono andata avanti.

Capitolo 4: Comunque andare, a modo mio

Oggi ho ventisette anni. Il mio rapporto con il cibo è tutto sommato sereno. Fisicamente sono tornata a essere quella bambina di quattordici anni né troppo magra né “in carne”. Giusta, direi. Giusta per me, anche se ogni primavera, quando la temperatura sale e gli strati di vestiti diminuiscono, mi cruccio ancora per quel rotolino in più lì e per quelle smagliature là. Però cosa posso dire?
Viviamo in una società complessa. Ogni persona della mia vita ha un rapporto complicato con l’alimentazione: o mangia troppo, o mangia troppo poco, o si allena eccessivamente, o non si allena per niente. C’è chi non mangia carboidrati, c’è chi beve troppo alcool, c’è chi pensa che la frutta a fine pasto faccia male, c’è chi va avanti a proteine e barrette energetiche.

Io non so se ho trovato un giusto posizionamento in questa varietà di abitudini e stili di vita. Sono ancora molto goffa, ogni tanto arranco. Ci provo, cerco di imparare dagli errori del passato, ricordandomi che la cosa più importante non è non cadere mai, ma sapersi rialzare con la consapevolezza del perché si è caduti, e poi ripartire.

Vi consegno queste pagine di diario con la speranza di creare un posto sicuro di condivisione, forza e resilienza. Non siamo mai soli.

A chi soffre, l’augurio di uscirne presto. A genitori e amici, l’invito a stargli vicino. A tutti gli altri: siate gentili. Dio solo sa quanto questo mondo abbia bisogno d’amore.

Un’ex paziente

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