
Novanta minuti di pellicola per raccontare il viaggio in Europa della giornalista Giulia Innocenzi e del regista Pablo D’Ambrosi, denunciando gli orrori degli allevamenti intensivi in Italia e nei paesi a noi più vicini. Al loro fianco Stef, attivista infiltrato all’interno delle industrie, e Lorenzo, finto lobbista che proporrà agli europarlamentari scenari al limite dell’assurdo, come la sperimentazione di maiali a sei gambe per la produzione di più prosciutti o l’inserimento di tubi nel retto delle vacche per produrre fertilizzanti in modo diretto. Proposte che, contro ogni aspettativa, verranno valutate con approccio possibilista e pure entusiasta.
Food for Profit offre uno spaccato sull’industria della carne che si allontana dalla narrazione sugli standard alimentari europei. Il film è stato proiettato anche all’interno del Parlamento europeo, riscuotendo un riscontro bassissimo. Fuori dall’eurocamera, invece, il documentario ha incassato immediato successo e in questi giorni è in tour nelle arene estive dell’Emilia Romagna: giovedì 27 giugno, in particolare, alla Rocca Brancaleone di Ravenna, alla presenza del regista D’Ambrosi, che abbiamo intervistato in anteprima: «Sono felice di portare questo documentario in una regione come l’Emilia-Romagna, fortemente interessata da questo tipo di allevamento», ci ha detto.
Il film verrà proiettato anche lunedì 8 luglio alle 21 al circolo Arci di San Pietro in Trento

Come è nato Food for Profit? Conosceva già Innocenzi?
«Non personalmente, è stato un amico in comune a metterci in contatto. Giulia aveva ricevuto le riprese degli allevamenti da Lav (Lega anti vivisezione, ndr) nel 2019 e cercava un produttore per il documentario. Abbiamo iniziato a sentirci telefonicamente a marzo 2020, nel pieno del lockdown. Tra luglio e agosto abbiamo iniziato le riprese, approfittando delle riaperture. Tra preparazione del lavoro, riprese e montaggio il progetto è durato 5 anni».
È stato rischioso portare a termine le riprese?
«Girando fuori dagli allevamenti siamo andati spesso incontro ad atteggiamenti aggressivi, addirittura violenti. A ridosso dell’uscita del documentario invece, sono arrivate le prime diffide da parte dei grossi gruppi alimentari. Uno dei principali sul territorio italiano ci ha diffidati senza nemmeno essere presente nel film».
Le immagini girate all’interno degli allevamenti sono crude e dolorose, ma c’è anche altro che avete scelto di non mostrare?
«Assolutamente sì. La fase di montaggio è stata la più delicata, perché abbiamo dovuto selezionare una serie di immagini forti abbastanza da sensibilizzare ma non tanto da allontanare lo spettatore. Non voleva essere un film dell’orrore, ma uno spunto di riflessione. Molti allevamenti coinvolti nelle riprese non compaiono poi nel lavoro finale. E non perché non ci fosse nulla da far vedere, ma proprio per il motivo contrario…».
Qual è stata la scena che più l’ha impressionata?
«Oltre alla sofferenza animale, che è già stata documentata più volte in passato, a colpirmi è stata la doppiezza della classe politica. Alle proposte distopiche di New Breeding Techniques del nostro finto lobbista, come quelle su ipotetici maiali con sei zampe per ottenere più prosciutti, la risposta dei parlamentari non solo è stata aperta e possibilista, ma suggeriva anche di iniziare queste sperimentazioni in Africa, perché nel caso “ci fosse scappato un pollo transgenico assassino” i danni sarebbero stati “limitati”».
Con quale obiettivo è stato girato il film?
«Vogliamo sfatare il mito che noi europei ci raccontiamo da anni, credendo di mangiare carne di qualità. La maggior parte dei documentari sull’industria alimentare sono produzioni americane: li guardiamo con disgusto, ma pensiamo di essere lontani da questi meccanismi. Non è così. L’aspetto politico inoltre è preponderante, dopo l’uscita del film due degli eurodeputati coinvolti nelle riprese (Clara Aguilera e Paolo De Castro, ndr) non si sono ricandidati alle Europee. Tra le altre richieste lanciate dal film, lo stop ai sussidi per gli allevamenti intesivi, una moratoria sulle nuove costruzioni e la nascita di un’associazione di cittadini con il potere di discutere queste tematiche in parlamento, per contrastare il lavoro dei lobbisti».
Cosa si potrebbe fare nel quotidiano per contrastare la situazione?
«Nonostante le inclinazioni del parlamento europeo, al suo tavolo ognuno è presidente. La scelta individuale che compiamo ogni giorno è fondamentale nella lotta agli allevamenti intesivi. Ognuno può scegliere di eliminare o ridurre drasticamente il consumo di carne, o adottare una dieta completamente plant-based. Anche se non tutti ci riusciranno, la consapevolezza sarebbe un valido primo approccio: c’è chi mangia carne anche due volte al giorno senza rendersene conto, e questo è possibile solo perché si tratta di carne economica e di bassa qualità. Una maggiore ricerca sul prodotto può comunque essere un primo passo per combattere le fabbriche della morte».
Da quanto emerge nel documentario, i fondi europei stanziati per gli allevamenti intesivi sono disponibili solo nel rispetto di determinate norme riguardanti il benessere e la salute degli animali, ma nella realtà poi non è cosi. L’Europa ne è a conoscenza e tace o sarebbero necessari maggiori controlli per smascherare questi illeciti?
«Credo che i politici vivano in una dimensione talmente distante dalla realtà da non rendersi conto, in molti casi, di quello che sta succedendo. La cosa più grave però è che i quasi 400 miliardi destinati alla Pac (la Politica Agricola Comune europea, ndr) fanno parte del Green Deal, un progetto votato in teoria al verde e alla sostenibilità che finisce con il finanziare realtà opposte. L’escamotage messo in atto è quello di stanziare i fondi non per gli allevamenti ma per le colture destinate agli animali, finendo con l’alimentare la stessa realtà. La politica vende ai cittadini un concetto e poi mette in pratica il contrario e il compito dei lobbisti è proprio questo: lasciare ai politici la possibilità di fare promesse ai cittadini ma mantenere di fatto lo status quo».