Andrea Bernabini, ravennate classe ‘61, è conosciuto da queste parti soprattutto per i videomapping Visioni di Eterno, realizzati dalla Neo Visual Project, che dal 2009 all’inverno 2022 hanno animato e valorizzato gli otto siti Unesco di Ravenna.
Nato come fotografo, Bernabini, durante l’alluvione del maggio 2023, ha iniziato a scattare e a documentare il disastro che aveva davanti. Ne è uscita una mostra fotografica, “Il segno dell’acqua”, che conta più di 60 immagini (tra cui una selezionata da un contest internazionale indetto da National Geographic) e video interviste, curata da Serena Simoni e visitabile dal prossimo 28 giugno (inaugurazione alle 18) fino al 16 settembre a Palazzo San Giacomo, a Russi (qui le info utili).

Durante l’alluvione hai iniziato a fare foto. Perché?
«Sì… Io sono uno degli alluvionati. Ho perso il mio studio, la casa l’ho salvata per miracolo. È stato un incubo. I giorni dopo sono andato in giro ad aiutare amici messi peggio di me. Stivali, badile e una camera. Ho cominciato a documentare tutto. Maggio, giugno e luglio 2023, otto o dieci ore al giorno. Poi sono entrato in una crisi tremenda. Vedere tutta quella devastazione, parlare con gli alluvionati, mi ha caricato emotivamente… Mi sono chiuso in casa».
Una specie di depressione?
«Direi più un sovraccarico di emozioni. Avevo visto il nostro territorio stravolgersi. La natura era come in metamorfosi, irriconoscibile. Dopo qualche tempo ho iniziato a uscire di nuovo. Un giorno ero sopra una casa, dall’alto, e ho visto un immenso cretto. Ho capito che avrei avuto bisogno del drone e ho cominciato a volare. È venuto fuori un mondo metafisico, tutto sembrava fermarsi in un istante senza tempo, gli spazi, le cose, dall’alto tutto aveva una paradossale bellezza. Questa ricerca mi ha aiutato a ritrovare un equilibrio…»
Hai cercato un conforto nell’estetica dell’immagine?
«Si. Ho fatto ritratti personali, ho intervistato questa gente disperata. Ho assistito alla depressione che è venuta dopo l’euforia iniziale, dopo i “Romagna mia”… È stata un’ubriacatura da eccesso di emozione, come è successo a me. Una sorta di esorcismo di questa tragedia. Solo dopo arriva la botta… In tutti questi luoghi sono tornato più e più volte. E ho visto gli alluvionati disperati, che guardavano quello che non c’era più. Alcuni non hanno davvero più nulla, sono fuori casa da più di un anno… Hanno dato solo alcune migliaia di euro di ristori. Ma cosa ci fai, quando non hai più la casa?»
La fotografia ti ha aiutato a sopportare tutto questo dolore?
«Io nasco fotografo e per me, fin dall’inizio, la fotografia è stata una forma di terapia. A 20 anni ho avuto un grosso incidente che mi ha distrutto le gambe. Sono stato 6 mesi in ospedale. Lì un mio carissimo amico, Daniele Casadio, mi portò una sportina di rullini. E così, dalla sedia a rotelle, ho cominciato a fotografare tutto quello che vedevo. Quando sono uscito ho fatto la mia prima mostra. La fotografia mi ha salvato la testa. A vent’anni, stare 6 mesi fermo in un ospedale, puoi immaginare… E anche stavolta ha avuto lo stesso effetto. Mi ha aiutato a superare il mio dolore e quello assorbito dagli altri. Questo lavoro va oltre l’aspetto documentaristico: la sua forte impronta artistica ha l’intento di porre l’attenzione sull’accaduto invitando il pubblico a porsi domande sul futuro del nostro territorio, in particolare sul rapporto con l’ecosistema da cui dipendiamo e soprattutto a non dimenticare».
Perché “Il segno dell’acqua”?
«La prima intervista che ho fatto è stata a una signora. Mi diceva: “Non mi è rimasto più nulla… l’unica cosa che ho, sono questi segni. I segni dell’acqua, che non se ne vanno”. È così, l’ho visto anche io: tu li lavi, ma tornano fuori. Ancora adesso, nei giardini, sulle foglie si vede il segno marrone di dove è arrivata l’acqua. Questa cosa mi ha colpito molto. Perché sono segni interiori, metafore del trauma che hanno subìto queste persone, che forse non se ne andrà più. Perché si parla spesso dei danni materiali, ma quasi mai dei danni psicologici dell’alluvione…»
Nel frattempo stai portando avanti altri progetti di videomapping…
«Sì, ne ho uno a Imola. Sarà tosta perché, come stiamo cercando di fare ultimamente, stiamo creando un’interazione fra i video e le performance dal vivo. Stavolta useremo la danza».
Il video mapping è un’arte innovativa, che richiede molte risorse, strettamente connessa a considerazioni turistiche…
«Anche.. Il video mapping è un’arte che ha molte forme di utilizzo. C’è chi fa solo effetti speciali, Io e Sara Caliumi della Neo Visual Project no. abbiamo un’impronta artistica molto forte. Ci piace raccontare storie. La tecnica del video mapping crea stupore. Il nostro cervello non è abituato a immagini così grandi, fa fatica a processarle. Pensa a un’immagine grande come San Vitale, come la Cattedrale di Ferrara, o come il Falcon Cap in Qatar… È la prima tecnologia di realtà aumentata che non ha bisogno di nessun accessorio. Sai, gli occhialini, i guanti… Il video mapping no. Non ha filtri, ti fa percepire nuove immagini senza bisogno di strumenti. Poi sì, le tecnologie costano. Un proiettore può arrivare anche a 50 mila euro, senza le ottiche».
Nel 2022, in piena crisi energetica, c’erano state polemiche politiche per i consumi della proiezione su San Francesco…
«Ti rispondo come risposi allora: un proiettore consuma come un ferro da stiro di una massaia. Neanche tre chilowatt. E una città d’arte come Ravenna non può rimanere mai al buio, deve risplendere sempre».
Hai citato il Qatar. Come ti sei trovato?
«È stato il primo mapping al mondo mai realizzato a 360 gradi così grande: l’edificio era alto 68 metri. I qatarini amano la falconeria, così hanno realizzato a Doha questo edificio che richiama il cappuccio che si mette sulla testa del falco. Il Falcon Cap, appunto, che ospita un museo multimediale. A livello culturale fanno quello che possono… Hanno tantissimi soldi che stanno spendendo molto bene. Ci sono strutture incredibili, teatri in marmo. Peccato che, anche per le condizione climatiche – la temperatura può raggiungere anche i 50 gradi – si vede poca gente in giro. Quindi qualche volta questi centri culturali sono un po’ vuoti, anche se bellissimi».
Negli ultimi anni stai collaborando molto con la giunta ferrarese leghista di Alan Fabbri. Hai notato differenze nel modo di concepire e gestire le politiche culturali, rispetto a Ravenna?
«Di Ravenna non posso assolutamente lamentarmi. Quando ho iniziato nel 2009, con Visioni di Eterno, Ravenna mi ha dato una grande possibilità credendo nel progetto di video mapping per la valorizzazione dei monumenti prima di tante altre città in Italia e in Europa. Poi le cose, naturalmente vanno avanti, siamo stati chiamati in Italia e all’estero. Ultimamente Ferrara mi ha fatto realizzare video mapping molto importanti sui suoi maggiori monumenti, come la Cattedrale e Palazzo dei Diamanti. Ci hanno accolto con entusiasmo e spirito di collaborazione, consapevoli che il video mapping non può che fare bene per il turismo».