domenica
15 Giugno 2025
L'INTERVISTA

«La lezione della pandemia non è servita: la sanità è ancora sotto finanziata»

«Aver lavorato a ranghi ridotti per tutto ciò che Covid non era, ha avuto delle conseguenze»

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Raffaella Angelini
Raffaella Angelini

Per più di vent’anni Raffaella Angelini, forlimpopolese classe ‘58, è stata a capo dell’Igiene Pubblica di Ravenna e della Romagna, affrontando nella sua lunga carriera sfide formidabili, come l’epidemia di Chikungunya del 2007 e la pandemia di Covid-19. Da poco in pensione, l’abbiamo intervistata per ripercorrere la complicata storia degli ultimi anni di sanità pubblica romagnola e per cercare di capire quali saranno le sfide del futuro.
Lei si è specializzata nel 1988 in Igiene e Medicina Preventiva, orientamento Sanità Pubblica. Solitamente chi studia medicina non pensa a questa carriera.
«Dico sempre che, pur avendo sbagliato completamente facoltà, ho fatto un’ottima carriera! Medicina è stata quasi un atto dovuto: ero brava a scuola, c’erano le aspettative dei genitori… Ma la mia attitudine non era verso l’assistenza individuale alle persone. Forse avrei preferito studi umanistici. Così ho cercato una strada alternativa, indirizzando il mio interesse per la politica verso un ambito più sociale, in cui l’oggetto dello studio non fosse il singolo, ma la collettività. Igiene dava questa prospettiva. Non mi sono mai pentita, anzi: mi sono divertita tantissimo. Ma poteva essere davvero un vicolo cieco: trovarsi al quinto anno di medicina e scoprire di non voler fare il medico può essere abbastanza disturbante».
Questa specializzazione era considerata un ambito minore dai suoi colleghi?
«Certo. Lo è anche adesso. Non si sceglie Igiene pensando di arricchirsi o di fare libera professione. Chi fa il medico pensa al camice bianco e al fonendoscopio attorno al collo: è l’immaginario collettivo. Questo è un altro tipo di lavoro… Durante la pandemia ci siamo accorti tutti dell’importanza di avere servizi di prevenzione efficienti».
Ha affrontato gli anni del Covid. Non riesco a immaginare cosa significhi gestire una pandemia mondiale da direttrice responsabile della sanità pubblica. Come si fa a resistere all’urto?
«La pandemia è stato un evento che è andato oltre la nostra immaginazione. Avevamo avuto in passato già altre pandemie, come la cosiddetta “suina” del 2010-2011, ma nessuna ha avuto le caratteristiche di gravità clinica del Covid. L’unico strumento che all’inizio abbiamo avuto per combatterla, era lo stesso usato dai veneziani al tempo della peste: la quarantena. Per la società occidentale, che pensa di dominare il mondo, trovarsi in una situazione così enorme, gestibile solo attraverso misure trecentesche, è qualcosa che ha scardinato ogni certezza. Ma, come abbiamo notato con l’alluvione in Romagna, durante le situazioni di grande emergenza nelle persone impegnate nei soccorsi scatta un senso di responsabilità e di solidarietà che normalmente non c’è. Se avessimo queste stesse capacità anche in “tempi di pace”, il mondo sarebbe migliore. Invece non è così. Siamo tornati a essere quello che siamo: individualisti, restii a comprendere la complessità».
Si riferisce ai complottismi nati durante il Covid?
«Per molti la spiegazione più semplice era: c’è qualcuno che vuole farci del male, che introduce un virus per controllarci. Queste derive, anche per chi non ci crede, generano dubbi, diffidenze. E tutto diventa più difficile. Si può parlare male dei vaccini o del progresso, ma il fatto che a dicembre 2019 si sia scoperto un nuovo virus, e che a dicembre 2020 fosse disponibile un vaccino in grado di fermare il numero dei morti, questo è qualcosa che, solo qualche anno fa, sarebbe stato inimmaginabile. Bisognerebbe far tesoro di questo, ricordarsene; ma tendiamo a rimuovere ciò che ci ha fatto star male. Adesso del Covid non si vuole più sentir parlare. Non c’è nessun motivo al mondo per cui abbiamo smesso di far uso di gel idroalcolico per lavarci le mani. Ci sono altri virus che si trasmettono ugualmente. Ma non lo fa più praticamente nessuno».
Spesso queste risposte irrazionali hanno una loro ragione, ma sono state trattate con sufficienza dal mondo dei professori. La posizione No Vax, illogica e pericolosa, forse partiva da una mancanza di ascolto da parte dei medici.
«Il tema è davvero grande… I no vax non nascono con la pandemia. L’ostilità nei confronti dei vaccini esisteva già ai tempi di Jenner, alla fine del Settecento. Il vaccino si somministra a una persona sana, che può giocare con la fortuna. Si dice: io non mi ammalerò, perché devo inocularmi qualcosa che potrebbe produrmi un danno? Su questo meccanismo mentale si sono saldate teorie complottiste, spesso anche influenze politiche importanti. Se a tutto ciò uniamo il panico della pandemia, si possono generare comportamenti pericolosi. Ricordiamo i centri vaccinali vandalizzati e danneggiati… Tutto questo è stato frutto di una dimensione storica alterata, in cui le libertà individuali sono state fortemente coartate. In un’analisi retrospettiva bisognerebbe riflettere su cosa realmente ha funzionato e cosa no».
Quali sono le sue opinioni?
«Qualunque Paese abbia avuto a che fare con la pandemia ha adottato le nostre stesse misure. Abbiamo avuto la sfortuna di essere il primo Paese occidentale a essere coinvolto. Sicuramente una cosa su cui bisognerà in futuro prestare molta attenzione è l’uso di tutte le risorse del sistema per curare le persone ammalate di Covid. Gli ospedali sono diventati quasi tutti ospedali Covid. Ma il Covid non cancella le altre malattie, non fa sparire infarti e tumori. Aver lavorato per due anni a ranghi ridotti per tutto ciò che Covid non era, ha avuto delle conseguenze. La soluzione ci sarebbe, anche se nessuno pare capirla. Il sistema sanitario, che ha tenuto in piedi il Paese in quel momento, veniva da anni di sotto-finanziamento. Una volta finito il Covid, quando avremmo dovuto capire che un sistema sanitario sotto finanziato potrebbe non reggere ancora a un urto del genere, anziché andare verso un rinforzo del sistema, si è proseguito nella stessa strada di una riduzione dei finanziamenti».
Recentemente ha affermato che il momento più difficile della sua carriera è stata l’epidemia di Chikungunya a Castiglione di Cervia. Perché?
«Credo fosse l’11 di agosto del 2007. Un’infermiera entra in ufficio e mi dice che a Castiglione hanno chiamato per dirci che si stanno ammalando tutti, che c’è in giro una malattia strana. Dopo accertamenti, è venuto fuori che nell’ospedale di Ravenna c’erano 4 persone ricoverate in reparti diversi, tutte di Castiglione. Abbiamo capito che c’era qualcosa di strano. Iniziati i controlli si è scoperto che c’erano già decine di persone ammalate di questa stranissima patologia. Eravamo sotto Ferragosto: molti erano in ferie, anche all’Istituto Superiore di Sanità; e poco lontano da lì, a Cervia, c’era un potenziale bacino di centinaia di migliaia di persone provenienti da tutta Europa. Perciò dico che è stata la sfida più difficile per me. Non ho dormito per settimane, ed è cambiato il mio modo di pensare».
Cosa intende?
«Mi ero sempre vista come una semplice professionista di un territorio di provincia, che aveva il compito di attuare al meglio le direttive imposte dai piani alti. Lì ho capito che ognuno di noi deve metterci del suo, perché non tutti i problemi sono chiari fin dall’inizio. Avevamo addosso l’attenzione dei media nazionali. Gli inviati dell’Oms e dell’Ecdc di Stoccolma erano convinti che la malattia si sarebbe diffusa in tutta Europa rapidamente, che non saremmo riusciti a fermarla in quell’ambito ristretto e con le risorse a disposizione. Ma ci siamo riusciti. Anche perché, e questo va detto, il nostro territorio è diverso dagli altri. Qui il senso delle istituzioni è ancora molto forte. Pur essendo allora un giovane medico igienista, i sindaci e le persone con una qualche responsabilità, hanno tutti collaborato con me. Nessuno che abbia detto: “Stiamo zitti perché roviniamo la stagione turistica”. Se si fosse tenuta nascosta, sarebbe stato un disastro: solo facendo venire alla luce i nuovi casi potevamo bonificare il territorio e contenere la malattia. Abbiamo estinto il focolaio: siamo stati il primo posto al mondo in cui si è riusciti a fermare un’epidemia di Chikungunya. Ma sia chiaro che il Covid è stato molto peggio della Chikungunya. La differenza è che col Covid il mondo intero ci dava indicazioni su cosa fare».
Cambiamenti climatici e nuove epidemie. Ci dobbiamo aspettare una maggiore frequenza di epidemie nel prossimo futuro?
«Il cambiamento climatico è il problema dei problemi. Dentro ci sta tutto: disastri ambientali, emigrazioni e naturalmente anche i problemi sanitari. Unito alla globalizzazione, rende la possibilità di future epidemie un fatto assolutamente probabile. Ad esempio attraverso l’insediamento di specie tropicali. È già avvenuto negli anni Novanta con la zanzara tigre, che può trasmettere la dengue».
Il nostro territorio è più fragile dal punto di vista epidemiologico?
«È fragile quanto ogni altro territorio d’Italia. A volte i dati che vengono dall’Emilia-Romagna sembrano preoccupanti perché sono tanti e più alti delle altre regioni; ma questo dipende unicamente dal fatto che abbiamo dei sistemi di sorveglianza che funzionano. Come le dicevo prima: nascondere un problema infettivo è il modo migliore per renderlo ingestibile. Se l’Emilia-Romagna sembra essere affetta da tanti casi infettivi, è solo perché li troviamo. Aver realizzato a Bologna, al Sant’Orsola, il Crrem, il Centro di Riferimento Regionale per le Emergenze Microbiologiche, la dice lunga: le andiamo a cercare, le cose».
In tutto questo non abbiamo parlato di un particolare: lei è una donna.
«Mi dimentico anche io, qualche volta! (Ride)».
Ha mai avuto difficoltà nello svolgimento del suo lavoro per questa ragione?
«Sinceramente no. Non ho avuto facilitazioni, ma neanche grossi problemi. Ho avuto la fortuna di lavorare con maestri di levatura molto alta. Ma il mio è un caso individuale e non vuol dire che il problema non esista: esiste eccome. A volte negli incontri ti rendi conto che hai davanti persone che ti sottovalutano perché sei una donna, ma questo si può usare a proprio vantaggio: essere sottovalutati può aiutare, perché puoi stupire le persone».
Ha detto che in pensione avrà finalmente il tempo di leggere. Che libri ci consiglia?
«Gli anni di Annie Ernaux e La ricreazione è finita di Dario Ferrari».

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