Le chiamano highway, autostrade, ma sono fatte di sabbia e pietre. Ci possono volere anche 16 ore di guida per coprire 300 km, l’equivalente di Ravenna-Milano che richiede tre ore. Le strade del Turkmenistan hanno messo a dura prova la Toyota Yaris dei tre trentenni ravennati che stanno partecipando al Mongol Rally, la corsa non competitiva ideata da una società inglese per raccogliere fondi a scopo benefico. La traversata del Paese asiatico, infatti, è costata una ruota: «Sembrava di viaggiare sugli scogli, a forza di buche e spuntoni un cerchione è diventato quadrato – racconta Massimiliano Farina che sta viaggiando con Antonio Capone e Luca Senni –. Abbiamo montato una delle due ruote di scorta e abbiamo proseguito». Alla prova dei fatti si è rivelata utilissima la placca di metallo installata sul fondo dell’auto a protezione del motore: «Senza di quella penso che avremmo rotto ben altro oltre alla ruota».
Per raggiungere il Turkmenistan è stato necessario attraversare il mar Caspio: ventuno ore di navigazione a bordo di un traghetto carico di camion che parte da da Baku (Azerbaijan) a suo piacimento, senza una tabella di orari. «Abbiamo aspettato quasi due giorni nel piazzale del porto (da dove ci avevano inviato informazioni per l’altra puntata del diario di viaggio) e poi la nave è partita. A bordo c’erano altri quattro equipaggi del Mongol Rally e siamo diventati una specie di attrazione per i camionisti che venivano a turno a salutarci e darci consigli, ci hanno insegnato come salutare le persone». Lo sbarco sulla sponda orientale ha segnato un drastico cambio di paesaggio: «Ci siamo trovati nel deserto, le strade sono diventate terribili e sono comparsi i cammelli, ovunque».
I giorni trascorsi in Turkmenistan hanno lasciato parecchi ricordi ai viaggiatori, alcuni al limite del surreale: «La città di Turkmenbashi prende il nome dal presidente turkmeno Saparmyrat Nyýazow morto nel 2006 che si era ribattezzato Turkmenbashi, padre di tutti i turkmeni. È stato un personaggio stravagante: aveva chiuso il Paese verso il resto del mondo, vietato lo studio delle lingue straniere, scritto una sorta di Bibbia per il popolo con rivisitazioni storiche e i cittadini dovevano impararne dei versi. Addirittura aveva cambiato il nome dei giorni della settimana: il venerdì era diventato Anna, il nome della madre, e infatti in un ufficio statale abbiamo visto un vecchio calendario con quelle diciture». E che dire della capitale Ashgabat: «È completamente bianca perché al dittatore piaceva il bianco. In giro per la città non c’è nessuno, non ci sono turisti e non si vedono persone, ci sono enormi edifici bianchi e vuoti, pieni solo di gente che tiene pulito e pota la vegetazione perché nonostante sia in mezzo al deserto, la città ha molto verde». Straniante l’esperienza sulla ruota panoramica: «È gigantesca e spenta. Abbiamo chiesto di salire, l’hanno accesa e pulita, ci hanno fatto fare un giro e poi l’hanno spenta di nuovo».
In Turkmenistan si entra solo chiedendo un invito in anticipo e alla frontiera si riceve un foglio con la mappa del Paese su cui viene tracciato a penna il percorso che si è legalmente autorizzati a percorrere: «A un certo punto ci siamo resi conto che non avevano disegnato il tragitto di uscita verso l’Uzbekistan. Abbiamo dovuto trovare un ufficio pubblico, pagare, e ottenere il documento per lasciare il Paese».
Tappa obbligata è stata quella che viene chiamata Porta dell’inferno: il cratere gassoso Darvaza originato dal collasso di una caverna di gas naturale e intenzionalmente dato alle fiamme dai russi per impedire la diffusione di gas metano. Si pensava si sarebbe spento in fretta ma pare bruci da mezzo secolo. «Abbiamo dormito su una duna sotto le stelle accanto al cratere in mezzo al deserto, è stata un’esperienza davvero bella».
Dopo la tappa in Uzbekistan, dove città come Samarcanda attirano anche numerosi turisti italiani, il trio a bordo della Fogna – il soprannome dato alla piccola utilitaria da mille centimetri cubici – è entrato in Tagikistan: «Abbiamo percorso la Pamir Highway che costeggia un fiume e corre accanto al confine con l’Afghanistan. Qualche base militare con le bandiere talebane l’abbiamo vista». Ma l’avvistamento più utile è stato quello di un gruppo di bambini che vendevano carburante: «L’abbiamo pagato l’equivalente di un euro al litro. Quello è stato l’unico momento in cui abbiamo rischiato di trovarci senza benzina».
La Pamir si spinge fino al passo passo Ak-Bajtal (4.655 m), una sfida troppo faticosa per la Fogna: «In alcuni tratti gli altri due sono scesi e io sono rimasto a guidare perché non ce la faceva l’auto – racconta Massimiliano –. La scelta è stata inevitabile, sono scesi i due più pesanti». Ormai la Yaris sembra non temere più nulla, nemmeno guadare un corso d’acqua: «Un ponte è crollato di recente e abbiamo attraversato con l’auto. Non è stato semplicissimo, abbiamo dovuto spingere la macchina e abbiamo cominciato a sentire puzza di bruciato dalla frizione ma alla fine ce l’abbiamo fatta».
Attualmente il gruppo si trova in Kirghizistan. Anche qui non manca l’aneddoto: «Ai controlli al confine i militari kirghizi sono impazziti quando hanno visto la Polaroid di uno di noi e hanno voluto farsi foto con noi che si sono tenute».
Il viaggio prosegue per raggiungere la regione di Oksemen in Kazakistan (il traguardo ufficiale non è più in Mongolia per evitare il passaggio nel territorio russo). La regola del Mongol Rally è semplice: non vince chi arriva primo, ma vince chiunque riesce ad arrivare.