Migranti in piazza, a Ravenna, per denunciare una presunta mala gestione e le condizioni all’interno dei cosiddetti Cas, i centri di accoglienza straordinaria. Il presidio dei richiedenti asilo si è svolto nella mattinata di lunedì 27 gennaio davanti alla sede della prefettura. Nel mirino è finita in particolare la cooperativa sociale Aurora di Bologna, a cui sono affidati diversi centri in provincia di Ravenna tramite bandi pubblici della prefettura.
A organizzare il presidio, in particolare, Ambra Barbieri, per tre anni dipendente di Aurora come insegnante di italiano, che accusa la cooperativa di non fornire tutti i servizi previsti dal capitolato di appalto, nonostante i fondi percepiti. «Ho provato a cambiare le cose “dall’interno” durante i miei anni di lavoro – spiega Barbieri -, ma oggi siamo costretti a scendere in piazza per chiedere alla Prefettura, ente pubblico appaltatore e responsabile della supervisione del lavoro dei gestori, di far rispettare alla cooperativa Aurora i servizi obbligatori prescritti nel capitolato d’appalto. Nonostante le numerose sollecitazioni, mail e richieste di spiegazioni, non abbiamo mai ricevuto risposta dalle istituzioni».
In piazza, a portare la voce dei circa 300 migranti ospitati dai Cas coinvolti in provincia, sono soprattutto donne, anzi, donne nere: «La categoria più discriminata al mondo», come ricorda nel suo intervento Ilaria Mohamud Giama, rappresentante di Faenza Multietnica. Con loro anche i figli, alcuni mariti e altri “inquilini” delle strutture gestite dalla cooperativa. Al megafono parlano in inglese e in francese, qualcuno abbozza qualche frase in italiano, ma a prescindere dalla lingua la richiesta rimane sempre la stessa: aiuto e dignità, per loro e per i più piccoli. La situazione dei Cas, per come raccontata, sarebbe grave. In particolar modo nella struttura di Bagnacavallo (luogo di provenienza di molti dei manifestanti) mancherebbero alcuni dei servizi di base e il giardino sarebbe ridotto «alla stregua di una discarica». La cucina – dicono i migranti in piazza – offrirebbe solo due fuochi per sfamare oltre 70 persone, con attese di ore per la preparazione del proprio pasto. In altri Cas le finestre sono rotte – dicono i richiedenti asilo – e così le lavatrici, «il bucato si fa a mano come si riesce, improvvisando ceste e bacinelle, e i servizi igienici perdono acqua da più di un anno, senza che nessuno si sia mobilitato per intervenire». Ci sarebbero poi scarafaggi e soffitti che cadono a pezzi. «Condizioni igienico-sanitarie che non creano solo situazioni di tensione e disagio – sottolineano i rappresentati sindacali di Cgil – ma potrebbero trasformarsi in potenziali problemi di salute pubblica».
Oltre alle condizioni precarie delle strutture di accoglienza, le denunce riguardano anche e soprattutto la scarsa disponibilità e reperibilità di medicinali, da comprare con il proprio pocket money nonostante i costi alti e il bisogno frequente soprattutto da parte dei bambini di farmaci di largo consumo come il paracetamolo. I soldi a disposizione per la spesa ammontano in media a 20 euro a settimana, ci dicono. Vengono erogati sotto forma di buoni pasto accettati unicamente da una catena di supermercati e non spendibili nei discount, dove la merce ha prezzi più contenuti. «Con il costo del cibo che si alza ogni due mesi, è praticamente impossibile mantenere una dieta equilibrata con circa 2,80 euro al giorno» sottolineano durante la manifestazione. Nei cartelli e nelle testimonianze viene sottolineato anche il mancato supporto alle madri e alle donne in gravidanza: «Se non parli italiano vai in ospedale senza mediazione» riportano alcuni cartelloni e, ancora: «Le donne che partoriscono non ricevono aiuto». Secondo quanto riportato mancano infatti pannolini e kit per neonati, oltre che pacchetti di vestiario (c’è chi racconta di aver raggiunto i centri di accoglienza durante le alluvioni senza scarpe, con ancora addosso i sacchetti gialli forniti in occasione dello sbarco a Lampedusa nei mesi precedenti) e materiale didattico per i minori, che avrebbe portato in alcuni casi menzionati alla rinuncia agli studi. Chi è in attesa di un permesso di soggiorno, spesso non conosce nemmeno il nome del suo legale e mancherebbero i mezzi per un libero accesso ai servizi pubblici e sanitari da parte degli ospiti delle case di accoglienza.
Ad accomunare i manifestanti, oltre alla necessità di aiuto, la paura di eventuali ripercussioni: «Abbiamo aspettato tanto a parlare perché abbiamo paura di essere allontanati dalle strutture per esserci esposti, e non possiamo permettercelo. Il passo però è stato necessario, speriamo di far sentire la nostra voce e ritrovare dignità». Quello che si aspetta ora è una risposta dalla Prefettura «Questa situazione è un fallimento per l’intero processo di accoglienza in Italia – conclude Barbieri – si parla di persone che investono quelli che spesso sono i risparmi di una vita (per una traversata raccontano di aver pagato circa 1.500 euro, ndr) in una “lotteria” che potrebbe farli arrivare in Italia come disperderli in mare».