Sabato 29 marzo (ore 16) alla Domus dei tappeti di pietra appuntamento con il noto storico, scrittore e divulgatore Alessandro Vanoli, che presenterà il suo nuovo lavoro L’invenzione dell’Occidente (ed. Laterza). Lo abbiamo intervistato.
Vanoli, cosa racconta il libro?
«L’invenzione dell’Occidente, appunto, ossia la storia dell’idea, del fenomeno culturale, politico, economico. Si parla di una storia (dalla fine del Medioevo in avanti) di guerre, possesso, colonie, in modo tecnico, tramite dati, fonti e attività di ricerca, in modo così da decostruire il concetto di Occidente per indagarne le origini profonde. Propongo un ragionamento per chi usa la parola prendendola da giornali o tv senza un adeguato contesto storico ed è intenzionato ad arricchire il concetto».
Sentiamo spesso dire che l’Italia è fuori dalla storia, insieme all’Europa, o che la storia è in realtà finita: cosa ne pensa?
«Io non credo nell’essere fuori o dentro la storia, lei va avanti comunque, indipendentemente dalle scelte geopolitiche delle varie nazioni. Fukuyama (politologo noto appunto per il suo saggio sulla “fine delle storia” e la teoria secondo la quale il processo di evoluzione dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, ndr) aveva a che fare con il picco della parabola imperialista americana e dopo il 1989 ci si convinse che gli Usa avessero davvero vinto, e in un certo senso si può dire che quella storia in effetti sia finita lì. Ma nel resto del mondo i fatti dicono ben altro: dagli anni ‘90 si è incrinata sempre più vistosamente l’egemonia euroamericana, figlia del colonialismo britannico e dell’imperialismo americano, e altre storie hanno cominciato ad emergere: Cina e India soprattutto sono tra i protagonisti nella nuova pluralizzazione degli attori in campo. Oggi l’Europa ha perso controllo economico e narrativo, si avvia a una posizione irrilevante sul grande scacchiere, dove governare una parte di mondo è diventato sempre più complesso».
E che ne sarà del concetto di Occidente?
«Nell’800 venne coniato in Gran Bretagna il termine “Western Civilization”, contrapposta geograficamente all’Est. Nel corso dei decenni si sono tuttavia aggregate varie nazioni al concetto di Occidente: Usa, Canada, Australia, Giappone, Corea, Nuova Zelanda, che a livello geografico non hanno nulla a che vedere con l’Europa. Cosa rappresenta quindi questa parola? Paesi capitalisti, sviluppati, ma non basta: viene a mancare un pezzo fondamentale. Oggi l’Occidente si sta disgregando in un processo iniziato anni fa, accelerato da Trump, che vede gli Usa staccarsi dall’Europa, e negli ultimi tempi si è dovuto rendere conto che intere regioni del mondo lo vedono come qualcosa di ostile, da odiare, combattere. Le campagne propagandistiche in Russia, il mondo arabo che rifiuta l’occidentalizzazione… Non so come si trasformerà nei decenni a venire il concetto ma già dal prossimo futuro la parola Occidente descriverà una divisione, un distacco tra le nazioni e avrà un sapore molto più amaro, fino a perdere il suo significato originale».
Un commento sul mondo di oggi?
«Tutto è confuso e in evoluzione. Siamo di fronte a una separazione tra Usa ed Europa, a un processo di individualizzazione e a mercati che sono diventati padroni delle popolazioni. Gli Usa sono guidati dalla logica animale di Trump, la Russia dall’ideologia di Putin, che in molti casi convergono. Vi è sul tavolo un accordo di spartizione, che esclude l’Europa, per il Medio Oriente, luogo storicamente americano. Per ora India e Cina non agiscono direttamente, ma l’India oggi regola i mercati, è in enorme progressione e ha una forte capacità assertiva, come la Russia, debole economicamente ma con testate nucleari e un’ideologia a guidarla. La tensione cresce, la complessità di questo tempo aumenta, lo scenario muta rapidamente».
Da esperto di storia mediterranea, come vede oggi il mare, il Mediterraneo: è una fortuna per l’Europa e per l’Italia?
«Noi il Mediterraneo lo abbiamo tradito. Lo raccontiamo come una risorsa, ma ce ne siamo fregati. Inutile dire che è un punto strategico, a livello militare e commerciale, ignorato dai francesi e trascurato, con scarse azioni sulle coste, da parte nostra. Negli anni ‘90 pensavamo che l’Europa lo avrebbe abbracciato, nel 2025 non più. Oggi viene spartito tra soggetti terzi: la Turchia (quindi la Russia indirettamente) gioca un ruolo fondamentale dalle coste anatoliche fino alla Libia, nell’intelligence soprattutto (campo in cui l’Italia una volta primeggiava); gli Usa sono presenti nei pressi di Israele e della costa libanese ed egiziana; i britannici hanno avamposti molto importanti a Gibilterra e Cipro. Siamo sorpassati da attori più aggressivi di noi, e nonostante una grande Marina Militare non riusciamo a cogliere i frutti strategici di questo mare. Mi piace pensare che gli europei possano ritrovare radici comuni nel Mediterraneo per costruire nuove basi di cooperazione, ma è veramente un’utopia».
La narrazione che ruolo ha oggi nell’epoca dei social e dell’intelligenza artificiale?
«Un ruolo sempre più importante, ma sta spostando il polo dell’attenzione dalla complessità alla sensazione, all’emozione. Il problema nasce nel momento in cui la funzione storica diventa oggetto di mercato, di intrattenimento, che emoziona il pubblico ma non lo invita a una critica, a una partecipazione collettiva. Chi fa storia oggi sa che il discorso complesso non è facile da “vendere”, ma la storia al suo meglio dovrebbe essere appunto partecipazione, mentre questo frangente è drammaticamente venuto meno. La ragione per cui faccio questo mestiere è che non mi arrendo a questo destino e nel mio piccolo cerco di approfondire l’analisi e fornire spunti di critica, che possano muovere più persone a un’attenzione storica e quindi anche politica».