domenica
22 Giugno 2025
l'intervista

Le biografie delle campionesse, che raccontano anche i cambiamenti della società

Dario Ceccarelli presenterà il suo libro "Le ragazze irresistibili" alla Classense il 5 aprile con Sefi Idem e Lia Celi

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Un dettaglio della copertina del libro

Classe 1955, giornalista professionista dal 1986, attualmente opinionista del Sole 24 ore, Dario Ceccarelli è al suo terzo libro dedicato allo sport e sarà a presentarlo a Ravenna, in Classense (Sala Muratori), martedì 15 aprile alle 18 con Josefa Idem e Lia Celi. Due donne per un libro dedicato proprio alle donne: Le ragazze irresistibili (Minerva edizioni) del titolo sono infatti campionesse italiane. Di loro Ceccarelli compone una serie di ritratti dove in rilievo non ci sono solo i successi in pedana o in campo, ma anche le loro vite e la loro affermazione in un mondo che cambiava. Una lettura insomma adatta non solo agli appassionati di sport, anche grazie a una scrittura pulita, attraversata sempre da una bella leggerezza, mai troppo enfatica. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Dario Ceccarelli 258Il suo è un libro di sport, ma anche di storie, di personaggi femminili ed è anche un po’ un libro di storia del costume in Italia e dei rapporti tra generi. Voleva forse scrivere un libro femminista? Come ama definirlo?
«Devo premettere che è un libro nato per caso, lo sport è sempre stata una mia passione e ho scritto altri libri sul tema, ma sempre di sport maschile. Fino a quando un’amica mi ha un po’ provocato chiedendomi: “e le donne, Dario?”. E così mi si è acceso un lumicino. Ho pensato che davvero l’Italia aveva tantissime campionesse che non avevano magari avuto lo stesso spazio e mi sono messo al lavoro. E adesso, che il libro è finito e ho iniziato a presentarlo, mi rendo conto che attraverso queste biografie in qualche modo emerge anche una storia dell’Italia in piccolo, una storia delle sue trasformazioni».

Si può dire un secolo di storia, visto che il libro inizia con la ciclista Alfonsina Strada, nata nel 1891, e arriva a Sofia Goggia, del 1992…
«Sì, e davvero in cent’anni è cambiato tutto per le donne. Sicuramente si può fare ancora tanto, ma dal “diavolo in gonnella” come chiamavano Strada anche le donne di allora, fino alle nostre sportive, come Federica Brignone o le ragazze del volley, si vede proprio un cambiamento epocale. Nei pregiudizi, nei giudizi, nel modo di approcciare lo sport. Oggi le famiglie pensano che sia importante anche per le ragazze. Penso a Ondina Valla, la prima atleta che vinse una medaglia olimpionica nel 1936 a Berlino, ma che non era potuta andare quattro anni prima a Los Angeles perché avrebbe fatto scandalo una donna sola in nave tra tutti uomini…».

Ma quanto, secondo lei, lo sport è un effettivo motore del cambiamento e quanto invece uno specchio di ciò che accade nella società?
«Credo che lo sport sia sicuramente una cartina di tornasole, ma anche un formidabile strumento di inclusione sociale perché è meritocratico: o ti impegni e sei bravo o non hai possibilità. Prendiamo la squadra di volley femminile: è un vero e proprio manifesto di cosa è la nostra società oggi, con ragazze italiane di provenienze diverse. Inoltre lo sport non è burocratico, deve trovare soluzione rapide, quindi ha contribuito a velocizzare molti processi e a modificare molti pregiudizi. Pensiamo per esempio a Bebe Vio e a come ha cambiato la percezione della disabilità».

Lo sport ci ha costretti, durante l’ultima Olimpiade, anche a un dibattito sulla definizione di donna, con la pugile Imane Khelif nello scontro con l’azzurra Angela Carini…
«Sì, ne ho parlato in un post scriptum finale. Ognuno può pensarla come vuole, è ovvio che il problema di livelli di competitività diversa tra donne e non-donne esiste. Tuttavia, per quanto accaduto a Parigi mi attengo a quanto detto anche da Federica Pellegrini: la pugile aveva un livello di testosterone alto, ma questo non ne fa un uomo. Può capitare anche negli uomini, come fu il caso per esempio del ciclista Gianni Bugno. Il testosterone alto è una caratteristica che può dare un vantaggio sportivo, ma Khelif aveva e ha perso molti incontri. Non mi è piaciuto il comportamento di un’atleta come Angela Carini che ha abbandonato l’incontro dopo solo 46 secondi, credo si sia fatta condizionare dalla situazione che si era creata intorno alla questione».

Polemiche a parte, in realtà le Olimpiadi sono state il trionfo delle atlete italiane. Eppure lo sport femminile non muove gli stessi soldi né lo stesso pubblico. Cosa manca ancora alla effettiva parità?
«Lo sport al femminile, tolto il calcio, non ha più niente da invidiare a quello maschile per quanto riguarda le competizioni, ma ha lo stesso ancora dei problemi: il primo è che ci sono ancora pochissime donne nei quadri dirigenti e anche tra gli allenatori. Ne parla molto anche Carolina Morace, secondo cui da un lato ci sono gli uomini che non vogliono cedere potere, ma dall’altra c’è una difficoltà anche a trovare donne disposte a impegnarsi in questo ruolo. Su questo c’è però una bella novità recente: è stata eletta la prima presidente del Cio donna, Kirsty Coventry, nuotatrice dello Zimbabwe, la prima della storia olimpica. Inoltre, credo che le atlete donne possano soffrire in modo particolare di tutta la pressione che c’è oggi sui ragazzi, il tema della vittoria a tutti i costi in campo ma anche dell’immagine fuori dal campo, a tutte è richiesto di essere brave, belle, social. Tania Cagnotto, che oggi fa la mental coach, parla proprio della fragilità delle nuove generazioni, forse le prime sportive avevano dovuto formarsi scontrandosi direttamente contro mille pregiudizi e arrivano al successo in qualche modo più forti e mature, oggi c’è una nuova fragilità».

Non sono però solo le atlete a dover essere brave e belle. Penso per esempio alle giornaliste sportive, soprattutto quando si occupano di calcio. Quanti passi avanti sono stati fatti in questo ambito?
«È vero che il calcio è ancora molto maschile sia nel campo, sia tra i commentatori che parlano questo gergo burocratico fatto di inutili tecnicismi. Un retaggio di una cultura maschilista che ha profonde radici in questo sport. Basti pensare che in quel mondo l’omosessualità è ancora un tabù. Mi sembra che ci sia una reticenza a essere se stessi, quasi che l’immagine da far trasparire sia ancora quella dell’uomo forte, alla Ibrahimovic. Sarebbe bene che anche il calcio cambiasse un po’. Per fortuna, nei campetti dove giocano i bambini, vedo sempre più ragazzine correre con gli amici».

Nella sua carrellata ci sono momenti in cui lo sport incrocia la politica, come alle Olimpiadi di Mosca vinte da Sara Simeoni. In uno scenario di conflitto come quello attuale, che ruolo può avere lo sport? Cosa ne pensa degli atleti russi costretti a rinunciare alla bandiera? La competizione rischia di diventare un elemento di orgoglio nazionale e nazionalista o può ritrovare lo spirito olimpionico delle origini, quello di De Coubertin?
«Un tema complesso, personalmente sono contrario ai boicottaggi che penalizzano solo gli atleti che non hanno nessuna colpa, In realtà credo che quando si mischiano le nazionalità in campo ci si possa accorgere di quanto siamo in realtà tutti uguali nella psicologia e nelle reazioni e si allontanino così le sovrastrutture bellicistiche. Quindi sì, credo che lo sport possa essere motore di pace. Per quanto invece riguarda lo spirito originario di De Coubertin, credo vada preso con le molle visto che per esempio lui le donne proprio non le considerava e non le voleva in gara…».

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