mercoledì
18 Giugno 2025
soccorso

Da trent’anni in prima linea sull’emergenza: «L’aspetto psicologico è quello più delicato»

La testimonianza di un infermiere del 118: «In un corso sul lutto ci siamo ritrovati tutti a piangere». La casistica degli interventi dice che calano le richieste da tossicodipendenti e aumentano quelle legate all’alcol: «Tanti giovani ubriachi»

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«Ogni giorno salgo sull’ambulanza del 118 e so che sarà una giornata diversa da tutte quelle precedenti. È il motivo per cui ho scelto questo lavoro e dopo quasi trent’anni continua ancora a piacermi. Peccato solo che sia un mestiere sottopagato». È la testimonianza di un veterano in servizio a Ravenna che preferisce restare anonimo e chiameremo Paolo.

In una giornata in cui ha smontato dal turno di notte ci racconta la sua professione con sincero entusiasmo. Paolo ricorda gli inizi: «Non c’era il corso di laurea, si diventava infermiere con un diploma dopo un corso regionale di tre anni a cui si accedeva con la maturità. In quei tre anni facevamo lezioni in aula e tirocinio in ospedale e venivamo anche pagati, circa 5 milioni di lire all’anno (2.500 euro, ndr)».
Fu proprio il tirocinio a far assaggiare a Paolo cos’era la medicina di emergenza: «Il 118 è la massima espressione dell’imprevedibilità, si agisce sotto pressione e tutto funziona solo se la catena delle persone coinvolte è ben organizzata. Lì ho capito che quello era il mio posto, non mi vedevo a dare pastiglie a un paziente in un letto».

Oggi Paolo alterna i suoi turni di lavoro come infermiere sull’ambulanza, guidata da un autista, o come infermiere alla guida dell’auto medicalizzata che trasporta il medico sui codici rossi. «I turni sono da 12 ore, 7-19 o 8-20 di giorno e viceversa per le notti. In un turno di ambulanza, per quelle nelle postazioni più critiche, possono arrivare anche 8-10 interventi. Ogni volta vuol dire andare sul posto, portare il paziente in ospedale e poi ripristinare il mezzo perché sia pronto per ricominciare». Con questi ritmi a volte manca il tempo per pranzare: «Prendiamo il pasto dalla mensa e lo portiamo via ma non sempre si trova la pausa per fermarsi. Magari si mangia “a tappe”».

In trent’anni di lavoro è cambiato il mondo, dentro e fuori dall’ambulanza. A bordo si è fatta strada la tecnologia: «Ormai si parla sempre meno a voce tra equipaggio e centrale operativa, al posto di radio e telefoni abbiamo i tablet dove riceviamo tutte le informazioni degli interventi e a nostra volta inseriamo i nostri spostamenti».
Gli smartphone sono diventati preziosi alleati. L’operatore che risponde dalla centrale, dove Paolo in passato ha lavorato, è in grado di inviare un sms con un link all’utente che attiva la telecamera e diventa un occhio diretto:

«L’operatore si fa un’idea più veloce e può dare i primi consigli di soccorso. Si sta rivelando uno strumento molto utile». Ma i cambiamenti sono arrivati anche attorno all’ambulanza. È diverso quello per cui si interviene: «I tossicodipendenti sono ormai casi rari, magari qualche caso di uso di cocaina. Ma gli eroinomani sono quasi scomparsi».
Aumentano invece i casi con disturbi psichiatrici: «Spesso sono situazioni abbinate all’abuso di alcol e droghe, già seguite da Simap e Sert, ma nel momento in cui c’è uno stato di malessere improvviso chiamano noi e in alcuni casi siamo costretti a sedarli. Sono situazioni frequenti».

E poi c’è tanto alcol: «I weekend al mare ne vediamo tantissimi. Ragazzini di 13-15 anni che bevono tanto e si sentono male». Quello che più incide sul 118 è il cosiddetto accesso improprio al servizio: «Molti interventi che andiamo a fare sarebbero materia da guardia medica, che essendo un medico può anche somministrare farmaci, cosa che non possiamo fare noi infermieri. Oppure c’è chi dovrebbe rivolgersi al pronto soccorso, ma non ha un’auto propria e  finiamo per essere una sorta di taxi.

Oppure capitano quei casi di poca gravità in cui noi carichiamo il paziente e la famiglia ci segue in auto: significa che avrebbero potuto portare loro la persona al pronto soccorso. Servirebbe un’opera massiccia di educazione civica tra la popolazione perché capisse quando è il momento di chiamare l’emergenza».

Occorre sempre mantenere la calma: «Entriamo nelle case delle persone, abbiamo a che fare con estranei ed è giusto essere educati e calmi. Lo dico sempre ai nuovi arrivati». Non sempre dall’altra parte c’è lo stesso atteggiamento: «Gli anziani ci trattano con grande rispetto, si vede che hanno ammirazione per la nostra professione e sono comportamenti che ti lasciano grande affetto. La popolazione sotto ai 50 anni, invece, spesso ha tutto un altro approccio, si rivolgono a noi con l’atteggiamento di chi crede che tutto sia dovuto».

Gli interventi che Paolo difficilmente dimenticherà sono quelli che hanno coinvolto bambini: «C’è poco da fare, sono situazioni che ti colpiscono. Soprattutto se sei genitore. Sia quando sono vittime dirette che quando sono parenti di vittime e devi fare di tutto perché non vedano certe scene. Qualcosa poi ti rimane dentro».
E bisognerebbe buttarlo fuori, perché non lasci scorie: «Un aspetto su cui forse c’è ancora tanto lavoro da fare è il sostegno psicologico. Vediamo la gente morire e stare male in ogni contesto. Cerchi di dimenticarlo e apparentemente mi viene da dire che stiamo bene, ma nessuno mi ha mai dato strumenti per metabolizzare quelle situazioni. Sto davvero così? Qualche tempo fa è capitato di fare un momento di consulto psicologico di gruppo sulla gestione del lutto e ci siamo ritrovati tutti a piangere. Vorrà dire che forse avevamo qualcosa dentro…».

 

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