sabato
19 Luglio 2025
Port'Aurea

Il teatro dietro le sbarre. Il regista Sideri: «Non salva la vita, ma aiuta a migliorarla»

Dal 2016 i carcerati della casa circondariale ravennate frequentano corsi di recitazione. Il pubblico nell’istituto per lo spettacolo finale

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«Il carcere è la manifestazione concreta dell’assenza di libertà. Il nostro lavoro ci permette di ricostruirla, almeno metaforicamente, creando un ponte con il mondo esterno». Così Eugenio Sideri, regista e fondatore della compagnia ravennate Lady Godiva Teatro, commenta il progetto Teatro-Carcere, attivo dal 2016 nella casa circondariale di Ravenna.
Ogni anno, sono circa quaranta i detenuti coinvolti: «È una situazione particolare, dove molte cose date per scontate all’esterno qui non lo sono. Ogni anno è una nuova scommessa». Il laboratorio si sviluppa nell’arco di diversi mesi (quest’anno da aprile a novembre) con incontri settimanali che si intensificano all’avvicinarsi del debutto in scena. Il progetto culmina poi nel festival “Trasparenze”, organizzato in collaborazione con gli altri otto istituti penitenziari in regione, che offre a spettatori esterni l’opportunità di assistere agli spettacoli dentro le carceri: «Non si tratta di visite di curiosità, ma di vere performance, spesso sorprendenti per qualità artistica e umanità».

Sideri, da regista, come seleziona i testi da rappresentare in un contesto tanto particolare? 
«Insieme agli altri registi del coordinamento regionale viene definito un tema triennale da sviluppare liberamente. Il ciclo precedente, Miti e utopie, ha ispirato rappresentazioni come l’epopea di Ercole, il mito di Orfeo ed Euridice e l’Inferno di Dante. Il nuovo triennio è dedicato ad Antonin Artaud e si apre con uno spettacolo che mette in dialogo la sua opera con la pittura di Ligabue: due artisti terrigni, veraci, feroci, che credo susciteranno molta emozione. Un aspetto centrale nella scelta delle tematiche è il distacco dalle biografie degli attori-carcerati. Non voglio conoscere le ragioni della loro detenzione, né che si identifichino nelle scene. Quando entro in carcere, lo faccio come regista, esattamente come farei con qualsiasi altra compagnia teatrale. Quest’anno però sarò impegnato con il progetto “I 7 cervi” e la regia passerà in mano alla mia collaboratrice Beatrice Cevolani».

Il progetto ha anche una valenza formativa?
«Credo sia un aspetto intrinseco al percorso: alla preparazione attoriale si affiancano momenti di studio e analisi di testi, immagini e musiche. Questo approccio si arricchisce grazie alla contaminazione con l’esterno: ogni anno coinvolgiamo nello spettacolo attori della nostra compagnia e studenti, inizialmente del liceo classico, oggi del Ginanni. È un modo concreto per creare scambio e un’esperienza di crescita condivisa».

Ci sono stati casi di detenuti che, una volta usciti, hanno proseguito nel teatro?
«A Ravenna direi di no, ma a Modena ci sono stati alcuni esempi. Personalmente non incoraggio questa strada: il teatro è un percorso complesso e precario, consiglio invece lavori più stabili economicamente. Negli ultimi anni però, grazie al progetto sviluppato con il Serd di Ravenna e la dottoressa Ludovica De Fazio, ho avuto l’occasione di rincontrare diversi ex detenuti, felici di mantenere un legame con quell’esperienza. Non vogliamo creare utopie con il nostro lavoro: il teatro non salva la vita a nessuno, ma può fornire qualche strumento in più per migliorarla».

Ci sono mai stati momenti difficili o imprevisti nel percorso?
«Non abbiamo mai vissuto situazioni di tensione o conflitto, le difficoltà maggiori riguardano il basso livello di scolarizzazione di alcuni detenuti o le eventuali barriere linguistiche per gli stranieri. Un anno però, un ragazzo si è tolto la vita pochi giorni dello spettacolo. Non faceva parte della compagnia, ma l’evento ha avuto forte impatto su tutti. Lo spettacolo è inteso da sempre come un momento di festa e di comunità: ho riflettuto a lungo con i ragazzi della compagnia, chiedendoci se fosse il caso di proseguire. Loro non hanno avuto dubbi, lo spettacolo si sarebbe fatto, anche e soprattutto per lui, e per alleggerire quell’enorme dolore. Qui torna l’aspetto terapeutico del teatro…»

Da esterno, come descriverebbe la situazione del carcere di Ravenna?
«Risente di alcune delle criticità comuni alla maggior parte degli istituti italiani: sovraffollamento, carenza di personale e strutture datate. È piccolo, e in questo periodo dell’anno fa davvero molto caldo. Nonostante i limiti strutturali però, credo che sia amministrato al meglio, con competenza e grande umanità. Il progetto Teatro-Carcere è solo una delle proposte culturali attive e non mancano le opportunità di formazione professionale».

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