La Pianura padana è una delle aree più inquinate d’Europa, a causa della sua morfologia chiusa tra le Alpi e gli Appennini che ostacola la ventilazione e trattiene lo smog. Lo confermano i dati di Legambiente, che ogni anno pubblica il rapporto “Mal’aria” sulle polveri sottili nei capoluoghi di provincia. Nel 2024 Ravenna è stata tra le città italiane che hanno più volte sforato i limiti giornalieri di particolato (PM10) e biossido di azoto (NO2), le sostanze più dannose per la salute umana. Insieme a lei in regione ci sono Rimini, Ferrara, Modena e Piacenza. «La situazione in Emilia-Romagna negli ultimi anni è migliorata, bisogna riconoscerlo. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare», afferma Paola Fagioli della segreteria regionale di Legambiente.
Da dove arrivano le polveri sottili?
«Soprattutto dal riscaldamento domestico, dalle attività industriali e dal traffico dei mezzi a motore. In molte città si superano spesso i limiti previsti dalle attuali normative. Bisogna correre per colmare questo gap, anche perché la nuova direttiva europea sulla qualità dell’aria impone di abbassare ulteriormente le soglie entro il 2030».
Qual è la situazione a Ravenna?
«L’anno scorso ci sono stati 37 sforamenti dei livelli di Pm10, nonostante la legge preveda un massimo di 35. Guardando i dati online di Arpae, quasi ogni giorno almeno una delle sette centraline fisse presenti in provincia registra valori superiori al limite di legge per il particolato, che è di 50 microgrammi per metro cubo di aria. Attualmente il capoluogo bizantino è al -17% di avvicinamento ai valori previsti dalle nuove norme. Che sono comunque lontani da quelli raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità».
Come si posiziona rispetto agli altri capoluoghi della regione?
«Non ci sono grandi differenze con le altre città dell’Emilia-Romagna. Anzi, a Ravenna i valori sono lievemente migliori rispetto ai capoluoghi emiliani. C’entra la vicinanza al mare, che aiuta il ricircolo dell’aria».
Che fare per migliorare la situazione?
«Bisogna aumentare i controlli sulle vetture in città, multando quelle più vecchie che non possono circolare in base ai provvedimenti comunali antismog. Ma anche sugli spandimenti dei fanghi e i bruciamenti in campagna, quando vengono fatti nei giorni proibiti dalle norme locali. Infine c’è il problema dei camini e delle stufe a legna, che sarebbero vietati nei centri urbani ma che molti continuano a usare».
Si possono controllare le abitazioni private?
«La municipale potrebbe bussare alle porte delle case, vedendo uscire fumo dal comignolo di un camino».
Bastano le norme locali e i controlli?
«No, si deve lavorare anche a livello nazionale. Innanzitutto tagliando gli incentivi per la sostituzione delle caldaie, vietati in Ue dallo scorso 1° gennaio. L’Italia rischia una procedura d’infrazione per questo. Va bene favorire l’acquisto di caldaie più efficienti, ma si tratta pur sempre di macchinari a combustione. Lo Stato dovrebbe piuttosto incentivare l’uso delle pompe di calore».
E per ridurre il trasporto privato?
«Bisogna migliorare il trasporto pubblico. Ormai è assodato: se un cittadino può usufruire di una mobilità pubblica pulita ed efficiente, riduce l’utilizzo della sua auto o moto».
In definitiva, si tratta di cambiare le abitudini delle persone.
«Una parte del lavoro va fatta anche sul piano culturale, ma penso che i controlli e le sanzioni possano essere più efficaci. Noi italiani tendiamo spesso a svincolarci dalle nostre responsabilità individuali».
Resta il problema delle industrie, molto più impattanti rispetto alle azioni personali.
«Le fabbriche incidono molto, così come gli allevamenti intensivi. Le deiezioni animali immettono gas inquinanti nell’atmosfera. Tanto che durante il primo lockdown del covid nel 2020, quando molte attività erano chiuse e non si poteva circolare con l’auto, alcune sostanze continuavano a permanere nell’aria perché provenivano dai liquami degli allevamenti. Quelli non si fermano mai».



