«Sono alla mia quarta Olimpiade, ma non riesco a spiegare cosa si prova a prendere parte a questo evento, può capirlo solo chi ha vissuto la stessa emozione. Mi viene da dire che si tocca il cielo con un dito». Il 65enne Marco Tosi Brandi, delegato Coni della provincia di Ravenna, è stato convocato dalla federazione internazionale di pallamano per i Giochi di Parigi: sarà uno dei tre delegati tecnici (insieme a un collega dalla Serbia e uno dal Montenegro) che seguiranno gli aspetti organizzativi di tutto il torneo diviso tra Parigi (fino al 4 agosto per la fase a gironi) e Lille (per le sfide a eliminazione diretta dagli ottavi alla finale).
Quale saranno i suoi compiti in questa competizione?
«Dobbiamo controllare l’evento, raccordarci con gli arbitri, tenere i rapporti con i media. Ci sono 12 squadre maschili e 12 femminili, si giocano tre partite ogni giorno, la prima alle 9 e l’ultima alle 21. In poche parole, il mio è un ruolo di verifica per fare in modo che tutto vada secondo l’iter previsto».
L’Italia non è mai arrivata ai Giochi in questa disciplina. Come sta il movimento nel nostro Paese?
«Purtroppo in Italia si pensa solo a quello sport giocato con i piedi. Io ho la pallamano nel sangue, da giocatore ho fatto diversi campionati in serie A a Rimini e un Mondiale nel 1982 proprio in Francia. Da dirigente sono stato anche delegato in Champions League e ho trovato partite con 12-15mila spettatori, la finale delle Olimpiadi sarà in un impianto da 30mila posti. Quando ho l’occasione di prendere parte a questi eventi internazionali vivo una doppia sensazione: sono emozionato per il livello che ha la pallamano all’estero e mi dispiace che il mio Paese non riesca a fare qualcosa di simile».
Cosa le piace della pallamano?
«Io la chiamo l’atletica giocata: si corre, si salta e si lancia come nell’atletica, che è la disciplina per eccellenza delle Olimpiadi, e in più c’è la palla che è l’attrezzo educativo più efcace. Il calcio piace perché c’è il gol che è divertimento, nella pallamano ci sono partite anche con 20-30 gol».
La pallamano può essere anche uno sport con un valore inclusivo?
«È uno sport che non lascia indietro nessuno, tutti possono essere coinvolti. Per questo sta piacendo a molti insegnanti delle scuole. All’estero si fa nelle scuole primarie, da noi invece ancora poco. A Ravenna abbiamo iniziato qualche progetto e il prossimo anno avremo altre scuole. Dove è stato provato è piaciuto».
Oggi che figura è quella del delegato provinciale Coni?
«È totalmente diversa da come era in passato. Prima di tutto sono cambiate le disponibilità di risorse e oggi è un incarico senza alcuna retribuzione. Cinque anni fa c’è stata la divisione tra Coni e il nuovo organismo chiamato Sport e Salute. Il Coni oggi è una sorta di ministero senza portafoglio e i delegati provinciali cercano di aiutare le società tra regolamenti, progetti, iniziative. Cerchiamo di affiancarle nell’organizzazione degli eventi, nella presentazione delle domande per i contributi. In provincia di Ravenna ci sono quasi mille società sportive sparse su un territorio vastissimo, possiamo cercare di sviluppare le potenzialità».
Alle Olimpiadi ci saranno tre atleti ravennati, due dei quali probabilmente all’ultima presenza. È il numero più basso da Montreal ’76. Deve essere un segnale di allarme per il movimento sportivo locale?
«È sicuramente una riflessione che merita di essere approfondita. In Italia tendiamo a rifugiarci in fretta nella “lamentologia”: scarse risorse, impianti obsoleti… ma non può essere quella la risposta a tutto. Nel nostro territorio c’è tanta attività che sta su un livello del 6, ma poca che punta verso l’8 o il 9 per raggiungere l’eccellenza. Bisogna trovare iniziative efficaci che facilitino la collaborazione, anche fra sport diversi, per coinvolgere i giovani. Per esempio: ogni partita in casa sarebbe bello se ci fosse un certo numero di biglietti per i tesserati delle altre federazioni. Non fermiamoci al proprio orticello».
Le singole federazioni sanno cogliere le occasioni di promozione?
«Non sempre. Per esempio a fine giugno a Milano Marittima ci sono stati gli open di golf e l’organizzazione aveva riservato uno spazio enorme per gli sport del territorio. Ho segnalato la cosa a tutte le federazioni e mi aspettavo che tanti andassero sul posto con un gazebo per fare informazione. Invece in pochi l’hanno fatto. Capisco che fosse fine giugno e attorno alle società c’è poco personale, ma le occasioni da cogliere sono quelle. In ogni caso i tanti volontari di queste discipline meritano il nostro ringraziamento per il lavoro che fanno».
Se parliamo di impianti, invece, come vede i progetti in corso?
«Abbiamo un nascituro palazzetto di cui ormai è impossibile fare previsioni realistiche sull’apertura. C’è una nuova piscina in cantiere di cui si è detto molto e di cui non sono convinto che le società sportive siano tutte d’accordo. Mi fermo qui con i commenti».
La qualità degli atleti deriva anche dalla qualità degli allenatori. Com’è il loro livello di formazione?
«Abbiamo indetto tre seminari e purtroppo ho visto poca partecipazione, anche se il costo di iscrizione era basso. In Italia fatichiamo a capire che anche gli allenatori devono essere formati per allenare, pensiamo invece di saper fare tutto. A settembre riattiveremo il processo di formazione ma sono scettico».