La romagnolità, secondo Eugenio Sideri: «Vivere fino in fondo, come i partigiani»

L’autore e fondatore di Lady Godiva Teatro parla del suo primo romanzo, pubblicato da Pendragon: «L’ho scritto di cuore, senza pensarci troppo. I miei modelli? Màrai e Il mulino del Po di Bacchelli»

Copertina Libro SideriDa più di trent’anni Eugenio Sideri, classe ’68 e fondatore nel 2001 di Lady Godiva Teatro, scrive per le scene. Chi lo conosce sa quanto le sue drammaturgie attingano dal corrusco calderone del mito, sia esso greco o storico. Ad attestare questo interesse, gli ultimi libri pubblicati per Fernandel: Partigiani, che riunisce le tante storie resistenziali raccolte e tramandate da Sideri; o il recente Orazione Epica, una riscrittura in versi del mito di Filottete.

Stupisce dunque la novità di un romanzo, ad aggiungersi alla già ricca messe di testi drammaturgici: Ernesto faceva le case, appena pubblicato per i tipi di Pendragon, racconta la saga di una famiglia romagnola travagliata dalle tempeste politiche e sociali del Novecento. Sullo sfondo, “le terre piatte dalle grandi nebbie”.

Eugenio SideriEugenio, hai già pubblicato vari libri, ma questo è il tuo primo romanzo. Com’è successo?
«Esatto. I libri che ho pubblicato con Fernandel sono tutti tratti da copioni; e anche questo romanzo, in origine, doveva essere uno spettacolo teatrale. Tra il 2017 e il 2018 stavo scrivendo una drammaturgia su un muratore. Allungando una didascalia sono arrivato a riempire tre pagine. Nel giro di una settimana avevo due pagine di dialoghi e dieci di didascalia. A quel punto mi sono reso conto che stavo andando da un’altra parte, così ho trasformato la storia di questo muratore in prosa».

Come sei arrivato all’editore?
«La storia è rimasta per molto tempo nel cassetto. Mi sembrava di non essere pronto per un passo del genere. Poi un anno fa ho inviato il romanzo a qualche casa editrice. Mi ha risposto quasi immediatamente Pendragon, di Bologna. Mi sono trovato bene sia con l’editore, Antonio Bagnoli, che con l’editor, Lorenzo Berti, con cui abbiamo veramente collaborato: si è messo al servizio del romanzo e mi ha aiutato molto nel labor limae».

C’è un aspetto autobiografico dietro a questo romanzo?
«Io sono nato in campagna, a San Zaccaria, un paese di mille anime. La mia infanzia è rimasta lì, a casa dei miei nonni, che sono stati i miei primi genitori. La mia prima lingua è stata il romagnolo, a fianco dell’italiano pulito di mio padre che faceva l’insegnante. Molte delle storie che racconto nascono da quella terra, che ho calpestato, annusato, mangiato. In nome di una finzione letteraria ho reinventato storie e personaggi, ma c’è tantissimo della mia vita vera, di ciò che mi raccontavano quelle persone».

Qual è l’arco temporale della storia?
«La storia comincia nel 1880 con la fondazione della famiglia Fabbri; ma come ogni vera famiglia romagnola, anche questa ha un soprannome, gli “Stringòs”, che in romagnolo antico significa “lacci”, come quelli delle scarpe. Anche la mia famiglia, ad esempio, è sempre stata la famiglia dei “Capuciôn”, gli “incappucciati”, mai saputo il perché! I discendenti dei primi Stringòs, in un racconto all’indietro, arrivano fino al Dopoguerra, nel 1950. In mezzo ci sono due guerre mondiali, il fascismo, la Resistenza, e ancor prima i primi moti anarchici e socialisti contadini: si attraversano 70 anni di storia romagnola».

Immagino che, come sempre in Romagna, il racconto della passione politica abbia una parte importante.
«Assolutamente. La famiglia è molto anarchica. Uno dei protagonisti, anarchico e libertario, si sceglie come soprannome “Machno”, da Nestor Machno, uno degli inventori dei kolchoz. Poi, con l’avvento del Partito Comunista, si passa al conflitto fra rossi e fascisti, una lotta fortissima nella nostra terra, con tutte le tragiche faide famigliari a cui ha portato». Dal punto di vista linguistico che scelte hai fatto? «Uno dei primi commenti del mio editore è stato che si vedeva che avevo scritto tanto teatro, sia dai dialoghi sia da come ho disegnato alcune situazioni. Sarà che questo romanzo l’ho scritto di cuore e ho lasciato che “succedesse” senza troppo pensarci. Sento che in questo percorso di prosa ho ancora tanto da imparare. E ho i miei modelli».

Quali?
«Sàndor Màrai sicuramente. Se mi chiedessi “come vorresti scrivere?”, ti risponderei senza dubbio Màrai. Ma un modello narrativo altrettanto forte è stato Il mulino del Po, di Bacchelli, un romanzo che amo moltissimo sebbene la sua lingua sia lontana dalla mia. Da questo romanzo ho preso la misura soprattutto per l’intreccio, che ho costruito “freddamente”, a scatole cinesi, con una cura quasi geometrica: per tutto il romanzo si continuano ad aprire parentesi che man mano vengono chiuse».

Definiresti questo romanzo “nostalgico”?
«Non direi. Questo romanzo ha uno sguardo all’indietro, senza dubbio, su una terra che non esiste più. Molti di quei valori, di quei sapori che racconto e che erano presenti in Romagna, sono scomparsi. Ma la Romagna, come qualunque altra terra, ha una sua cultura, destinata a evolversi e cambiare. Per questo non ha senso rimpiangere. Mi sono guardato indietro con la grande serenità di una persona che ha ricevuto tanto da questo passato e che si augura di averlo portato avanti nel suo presente, così distante e diverso».

C’è una caratteristica che, più di altre, rende “romagnoli” questi personaggi?
«Ognuno di loro ha vissuto fino in fondo la sua vita. Vivere fino in fondo – come per i partigiani che racconto a teatro, che sono morti per un ideale o un pensiero e nel momento in cui si sono guardati indietro non hanno avuto rimpianti: questo fa parte della romagnolità, secondo me. E questo possiamo attingere dalle loro vite per creare un nuovo oggi».

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