Perdersi nel labirinto, rinascere nella conchiglia

Divagazioni su due simboli della civiltà occidentale.
Dove smarrire la strada… e rigenerarsi

Fra le molteplici rappresentazioni dedicate alla vita dell’uomo un ruolo principe ha sempre occupato quella del labirinto, eccezionale e pregnante metafora del suo cammino e del suo complesso procedere.
La grande fortuna del labirinto, attestata da Plinio nei pavimenti musivi (dal II sec.a.C. al VI sec. d.C.) in territorio italiano e nelle provincie sotto l’influenza di Roma (Africa settentrionale, penisola iberica, Francia, Svizzera, Gran Bretagna) ci mostra la forza e la vitalità di questa rappresentazione simbolica.Si tratta di un tema talmente significativo che per la sua ricca valenza ha tracciato un filo ideale che unisce culture pagane e cristiane e che dai mosaici pavimentali delle fastose architetture precristiane è emigrato nelle cattedrali, nei codici miniati medievali, negli apparati decorativi e nelle aree verdi quale necessario complemento delle ville signorili, perché i simboli viaggiano nel tempo e nello spazio abbattendo recinti e confini.
Ma sempre il labirinto ha posto la medesima domanda: come uscirne? Come precedere? Quale via seguire?

Il percorso nei meandri labirintici richiede determinazione, concentrazione e soprattutto forza di volontà. La vita è un continuo fluire di accadimenti, un susseguirsi di esperienze che causano turbamento e timore, ma ciascuno può e deve affrontare il proprio minotauro interiore, concentrato di tutte le paure, e il cristiano è aiutato dalla fede che lo guida lungo la retta via.Come ruolo alternativo al pellegrinaggio a Gerusalemme, la Francia proponeva una spedizione a Santiago de Compostela, nel nord della Spagna, viaggio che andava intrapreso a piedi e comportava il difficile attraversamento dei Pirenei. Impresa molto ardua e dispendiosa e, per venire incontro al desiderio del pellegrinaggio, la maggior parte delle cattedrali aveva un labirinto tracciato sul pavimento in pietra nella navata centrale: i fedeli, trascinandosi sulle ginocchia e recitando preghiere, percorrevano il tragitto. Certamente i costruttori conoscevano il primo esempio noto di labirinto, quello che si trova nel palazzo del re Minosse a Cnosso, nell’isola di Creta, e che probabilmente servì da modello. Al centro di alcuni labirinti c’era Teseo che lottava col Minotauro, ma molte di queste raffigurazioni, a seguito di distruzioni, restauri o rinnovamenti, sono sparite e ce ne sono pervenute solo le descrizioni (come a Chartres).

Dal più celebre e grande labirinto, tracciato nel XII secolo nella navata centrale della cattedrale di Chartres, ai sofisticati labirinti descritti nella Hypnerotomachia Poliphili (Francesco Colonna, 1499), sarà proprio il Rinascimento a recepire e a rivitalizzare il labirinto, proponendolo anche quale architettura arborea, come quello di Villa Pisani a Stra.

Nella chiesa di San Vitale a Ravenna, nella pavimentazione dell’ottagono centrale, proprio davanti al presbiterio si trova un labirinto (diametro di m.3,40) caratterizzato dal susseguirsi di triangoli, mentre tutto intorno rombi in colori diversi sono commessi in esagoni a tre a tre, in modo da formare un disegno di cubi in prospettiva (opus scutulatum).
Il pavimento, a intarsio marmoreo, fu realizzato fra il 1538 e il 1545 durante i lavori di innalzamento di circa 80 cm del piano pavimentale, operazioni necessarie per porre rimedio ai continui allagamenti dovuti all’abbassamento del suolo sottostante l’edificio: sono stati riadoperati marmi antichi come il porfido rosso e il serpentino, il giallo antico, il nero di paragone, il marmo di Verona, il cipollino rosso o marmo di Caria; inoltre è stato fatto largo uso di paste vitree dai colori accesi, di tessere musive e di frammenti di mosaico figurato.
Non credo si possa escludere che anche nella redazione pavimentale originaria del VI secolo fosse presente un labirinto che, danneggiato nel tempo e dai continui allagamenti, è stato riproposto nel XVI secolo per la sua forte carica simbolica.

Il percorso presente nel labirinto di San Vitale parte dal centro e si snoda via via in direzione dell’uscita, seguendo l’indicazione delle piccole frecce triangolari di marmo bianco. E appena finisce il cammino ci si trova dentro ad una grande conchiglia. Nascita? Rinascita? Nuova vita in un’altra dimensione?
Attesta Plinio (Plinio, Hist. Nat., IX, 30; XXXII,5) che delle conchiglie venivano consacrate a Afrodite nell’isola di Cipro, dove la dea era stata condotta dopo la sua nascita dalla schiuma del mare; in virtù del loro potere creativo, in quanto emblemi della matrice universale, le conchiglie trovano posto nei riti funerari e in svariati monumenti simboleggiano la resurrezione

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Delfini e conchiglia, particolare dell’arco del presbiterio, San Vitale, Ravenna

Il motivo della conchiglia è ampiamente presente sia nelle decorazioni pavimentali che in quelle parietali della basilica di San Vitale, essendo le prime una sorta di proiezione terrestre delle rappresentazioni aeree: basti ricordare la grande conchiglia-baldacchino che sovrasta l’imperatrice Teodora, o quelle al di sopra della coppia di delfini salvifici che separano i medaglioni degli Apostoli nell’intradosso dell’arco presbiteriale. Motivo questo che, per inciso, è recuperato dal rilievo romano del Trono di Nettuno, allestito proprio alla base del grande arco, a confermare la continuità dei simboli nel volgere del tempo.
Rileggendo quindi la grande decorazione musiva si possono cogliere sempre ulteriori connessioni e spunti per approfondire l’articolato e sapiente programma svolto nello stupefacente racconto musivo, la coerenza e la raffinata complessità, lo stringente legame fra i diversi simboli che a volte ci appaiono isolati.
Muoviamoci dunque nel labirinto, e usciamo “a riveder le stelle” nell’accogliente conchiglia!

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