Nel giugno 1969 Carlo Pacher dava alle stampe un piccolo libro intitolato «Ravenna paleocristiana e bizantina», una pubblicazione pensata per un turista che volesse visitare Ravenna con una solida preparazione culturale.
Il testo, dopo alcune premesse generali, trattava tre grandi temi: l’architettura, la scultura e il mosaico. All’inizio di tutto l’autore aveva posto un’«avvertenza» in cui dichiarava, senza mezzi termini, l’intento che lo aveva guidato nella scrittura: «Questa introduzione all’arte ravennate è destinata idealmente al visitatore non troppo frettoloso e distratto: al visitatore, cioè, nel quale la coscienza di venire a contatto con uno dei più importanti centri d’arte che esistano al mondo prevalga sull’affanno programmato del turismo itinerante e alienante. Essa nasce dal rigetto della politica di appiattimento culturale e di squallido nozionismo che presiede normalmente all’uso degli strumenti divulgativi di massa. Non ha intendimenti né strutture che si ispirino al concetto dell’informazione globale, sempre scheletrica e quindi astratta; non vuole allineare in un coacervo di date, aneddoti, nozioni tutta la storia e tutta la civiltà di Ravenna, magari con la tecnica degli «itinerari» che obbligano alle stravaganti «corvées» erudite, tanto mistificanti quanto inutili. Vuole dare soltanto un’informazione […] su quel periodo della civiltà artistica che rappresenta veramente il grande momento della sua storia, e cioè il periodo paleocristiano e bizantino».