Nel 1925 Giusta Nicco, storica dell’arte italiana, pubblicava nella rivista “L’arte: rivista di storia dell’arte medioevale e moderna e d’arte decorativa” diretta da Adolfo Venturi un lungo e articolato saggio intitolato «Ravenna e i principi compositivi dell’arte bizantina» in cui, dopo un’ampia e colta introduzione, prendeva in esame i singoli monumenti ravennati descrivendone l’architettura e gli straordinari mosaici: «Chi vuol vedere in Occidente cristallini esempi di arte bizantina, vada, con pio animo, a Ravenna. A Ravenna in alcuni monumenti rimane qualche raggio della gran luce che nel V e VI secolo investì il mondo greco. I moderni usano il loro ingegno a difenderli dal tempo, dall’acqua e dall’inesorabile loro addentrarsi nel suolo. Piccola parte, all’età d’oro di Ravenna, nella profusione di miracoli colorati, sono ora meraviglioso e singolare esempio di quegli altissimi sogni. Ed i moderni li guardano come gemme di gran pregio, che ci si accontenta di proteggere con ogni cura. La città è lo scrigno; poichè Ravenna è arrivata fino a noi esaurendo le sue interne risorse di vita, ed appare come un gran corpo che ebbe una vitalità poderosa, e resiste per la robustezza degli organi, avendo ridotte le sue funzioni all’essenziale. La «felix» vive ora pallidamente, come ombra tutelare, di fronte al mondo di quel sacro deposito, e dell’altro, diversamente santo, ugualmente grande che la fa per un momento la prima, per la sua pietà, delle città d’Italia: le ossa di Dante».
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