lunedì
16 Giugno 2025
Rubrica Eppur si muove

Lost in magnification – Diario di un microscopista elettronico

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Luca OrtolaniLuca Ortolani, 33 anni, faentino, è un giovane ricercatore a tempo determinato del CNR – Consiglio Nazionale delle Ricerche – presso l’Istituto per la Microelettronica e i Microsistemi di Bologna (http://www.bo.imm.cnr.it). Laureato e addottorato in Fisica presso l’Università di Bologna, ha svolto diversi periodi di formazione e ricerca presso il laboratorio CEMES del CNRS di Tolosa, in Francia. Al di là del lavoro cerca di trovare il tempo per dedicarsi alle sue passioni: il disegno, la scultura e la politica. Vive a Faenza con la sua compagna, laureata e addottorata in Fisica e ricercatrice presso un’industria Bolognese (che cercherò di stanare per un prossimo contributo al Cono d’Ombra).

Uno si immagina un ricercatore sperimentale in scienza dei materiali come un moderno alchimista che armeggia con fare misterioso tra ampolle fumanti e soluzioni ribollenti. Niente di più sbagliato.
Mi dispiace sempre deludere le scolaresche che vengono in visita presso il nostro laboratorio con la romantica immagine dello scienziato pazzo, ma se dovessi descrivere le mie giornate al lavoro non ci sarebbe troppa differenza con quelle di un impiegato. Di solito, quattro giorni a settimana, mi trovate alla scrivania del mio ufficio, davanti allo schermo del computer ad analizzare dati ed immagini, a scaricare e leggere gli articoli pubblicati recentemente per fare avanzare le nostre ricerche. Questa è forse la parte più sottovalutata – ma forse più bella – di questo lavoro, perché l’aggiornamento è costante e non si finisce mai di studiare ed approfondire. La maggior parte del tempo la passo a scrivere: si preparano articoli in cui raccontare le nostre scoperte – o almeno ci si prova, ecco – perché fermarsi a riflettere sui dati raccolti e ritrovare, dopo la frenesia del laboratorio, il significato e la direzione delle proprie ricerche è fondamentale. Inoltre oggi la competizione è alta e o pubblichi o muori!
C’è anche una nota dolente, ed è che tanto tempo se ne va a scrivere proposte di progetti per farsi finanziare le ricerche: che il posto fisso é sempre più un miraggio e ogni anno si cercano i soldi per lo stipendio dell’anno dopo!
Passati quattro giorni da impiegato di concetto, in questa settimana ideale, si arriva alla giornata dedicata all’attività sperimentale e, finalmente, scendo in laboratorio per passare un po’ di tempo con il microscopio elettronico.
Il microscopio elettronico in trasmissione nel laboratorio del CNR IMM di BolognaUn microscopio elettronico in trasmissione, per la precisione. Chiariamo subito, che qualcuno una volta aveva frainteso scatenando l’ilarità generale: si chiama microscopio “elettronico” non già perché sia la versione evoluta del vetusto “microscopio a manovella”, ma perché, al posto della luce – dei fotoni – di un microscopio ottico, qui si usa un fascio di elettroni per osservare i campioni da analizzare. Per il resto questo microscopio funziona come il suo parente ottico, come quelli da tavolo, con il binoculare che abbiamo imparato ad usare in laboratorio alle superiori.
Provo a spigarvelo velocemente. Anche nel microscopio elettronico ci sono delle lenti, per focalizzare il fascio sul campione e poi per crearne una immagine ingrandita sullo schermo di osservazione. Purtroppo utilizzare elettroni al posto della luce comporta tutta una serie di complicazioni: a differenza delle lenti normali, per focalizzare gli elettroni, non si usano pezzi di vetro, ma campi magnetici molto intensi. Inoltre, mentre la luce viaggia tranquillamente attraverso l’aria, gli elettroni sono particelle cariche che interagiscono fortemente con la materia e per permettergli di giungere dal cannone che li genera ed accelera, attraverso il campione, sullo schermo di osservazione, tutto l’interno del microscopio é mantenuto sotto vuoto. Tutto ciò fa si che il microscopio elettronico non sia qualcosa di pratico da mettere su un tavolo, ma uno strumento che occupa una stanza intera, tra elettronica di controllo, strumenti a corredo e la colonna ottica del microscopio vero e proprio: un cilindro di acciaio alto più di due metri dentro cui corrono gli elettroni.
A parte le complicazioni, utilizzare elettroni al posto dei fotoni permette di superare di diverse centinaia di volte la risoluzione di un microscopio ottico, riuscendo a distinguere facilmente le distanze tra gli atomi nella materia. Questo perché, in un microscopio, la risoluzione é legata strettamente alla lunghezza d’onda della radiazione che si usa. Parlando di luce visibile, con il blu, anche al limite dell’ultravioletto, quando l’energia é più alta e la lunghezza d’onda più piccola, non riusciamo a superare un centinaio di nanometri – un centinaio di miliardesimi di metro.
Con gli elettroni, invece, é tutta un’altra storia! Gli elettroni sono particelle cariche e con un po’ di tensione elettrica si possono facilmente accelerare fino a conferirgli grandi energie cinetiche. Con 200.000 Volts, che sono quasi lo standard per la microscopia elettronica in trasmissione, gli elettroni hanno una lunghezza d’onda di un paio di picometri – un picometro é un millesimo di nanometro e si capisce facile il guadagno in termini di risoluzione che si può ottenere.
Nanoparticelle d'oro su una membrana di carbonioPurtroppo mentre è semplice produrre lenti ottiche praticamente perfette, “sagomare” il campo magnetico che funziona da lente nel microscopio elettronico pone ancora oggi delle difficoltà quasi insormontabili. Per questo motivo le lenti elettroniche sono intrinsecamente “imperfette” rispetto alla loro controparte ottica. Dunque, nonostante elettroni di lunghezza d’onda di pochi picometri, nella pratica, quando va bene ed è proprio giornata, nel nostro microscopio ci riteniamo contenti di distinguere, in una immagine, piani cristallini distanti 0.2 nanometri, che per fortuna è sufficiente per analizzare la struttura della maggior parte dei materiali.  Già, perché il mio lavoro é quello di misurare: forma, dimensione, struttura e composizione di nano–materiali, come nano–particelle, nano–tubi e nano–fili. Dove nano- non sta semplicemente per “molto piccolo”, ma caratterizza esattamente la scala di lunghezze associata a questi oggetti: il miliardesimo di metro.
In particolare, ultimamente sono rimasto affascinato dalle nano–particelle di silicio e dal grafene e spendo quasi tutte le mie giornate al microscopio a caratterizzare questi materiali.
Quello che mi motiva – e che giustifica i soldi che l’Europa e l’Italia stanno investendo per la ricerca su questi materiali – é l’idea di realizzare pannelli fotovoltaici ad alta efficienza, flessibili e arrotolabili. Provo, in due parole, a spiegarvi l’idea che abbiamo in mente. Le nanoparticelle di silicio si comportano come tante piccole antenne per la luce, a seconda della loro dimensione si “sintonizzano” su un particolare colore dello spettro visibile e assorbono con grande efficienza i fotoni convertendoli in elettroni. Per chiudere il cerchio – e il circuito – questi elettroni vorremmo raccoglierli con un elettrodo di grafene, che é un materiale altamente conduttivo, estremamente flessibile e molto resistente, sia chimicamente che meccanicamente. Lavoriamo con chimici che cercano di sintetizzare soluzioni di nanoparticelle di silicio delle dimensioni volute, fisici che cercano di creare fogli di grafene su supporti flessibili e ingegneri che studiano come integrare questi due materiali in un pannello fotovoltaico funzionante.
Dunque, eccomi a misurare al microscopio, per fornire un feedback continuo a chi sintetizza le nanoparticelle e i fogli di grafene sulla qualità del materiale ottenuto – quando ci si riesce – e di cercare di capire cosa é andato storto – in tutti gli altri casi, che purtroppo sono la maggioranza!

di Luca Ortolani

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