Shoegaze: i cappelletti col ragù son cappelletti col ragù

Slowdive – Everything Is Alive (Dead Oceans, 2023)

Slowdive

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Un paio d’anni fa una mia amica si è trasferita da Bologna a Cesenatico e da allora sta portando avanti un contest culinario: gira di trattoria in trattoria e mette a confronto i cappelletti col ragù. Tipo: Ristorante 1, sfoglia grossa, sugo insipido; Ristorante 2, troppo pomodoro, cappelletti più saporiti; passa il 2. La sfida mi intriga ma non credo che sarei tagliato per portarla avanti – voglio dire, alla fine di tutta la storia i cappelletti col ragù sono cappelletti col ragù, e creare una tassonomia completa mi annoierebbe a morte (anche la mia amica del resto sta postando con poca regolarità: forse ha scoperto i passatelli asciutti).

Non sono un fan di quello che i cultori chiamano shoegaze ma gli concedo che è senz’altro il genere musicale con il nome più bello del mondo. Semplificando: è nato in Gran Bretagna negli anni ottanta ed è fatto di melodie molto dolci e molto malinconiche, suonate a volumi completamente insensati. Si chiama così (shoe/gaze, guardare le scarpe) perché i chitarristi stanno chinati sulla pedaliera per tutto il concerto a pestar pedali per tirare fuori i suoni più saturi e rumorosi possibili. Il genere ha conosciuto momenti di fama a cavallo tra anni ‘80 e ‘90, ha prodotto qualche capolavoro assoluto del rock (il più grande è Loveless dei My Bloody Valentine) e una distesa di ottimi gruppi.

Tra i vari, gli Slowdive, che hanno prodotto uno dei capolavori di cui sopra (Souvlaki, anno 1993) e un gruppo post-scioglimento di dimensioni enormi (Mojave3, acustici/slowcore, da recuperare ad ogni costo). Poi lo shoegaze è finito e per una dozzina d’anni non ha dato segni di vita. Qualcuno lo ha ripescato nei tardi anni ‘10, una costola del revival post-punk: nessuna idea nuova, qualità artistica altalenante, ma era un bell’immaginario e si sposava bene con le tensioni dark del periodo. Così, per 15 anni, abbiamo ascoltato e dato credito a ogni nuovo disco shoegaze che usciva: centinaia di titoli l’anno, molto raramente di qualche interesse artistico. Sull’onda del revival anche gli Slowdive si sono riformati, e sono tornati a fare dischi (l’ultimo, Everything Is Alive, di qualche giorno fa). Forse sono anche bei dischi. Ma li hanno copiati in troppi, per troppo tempo, per non farci provare quella tipica crisi di rigetto che provi quando realizzi che, alla fin fine, son sempre cappelletti col ragù.

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