Inizio questa nuova rubrica sperando innanzitutto di non far troppo rimpiangere il mio predecessore, Alessandro Fogli, e con una premessa: parlerò di musica con la consapevolezza di non essere un critico, ma un semplice ascoltatore appassionato che può vantare svariati anni di ascolti, centinaia di concerti alle spalle e migliaia di dischi sugli scaffali. Detto questo, la musica è l’unico campo in cui credo di avere sempre ragione. Quindi non cercate di contraddirmi (ma se volete riempitemi pure di insulti alla mail in calce all’articolo). Qui si parlerà di tutto, dal rock all’elettronica, dal pop all’avanguardia, dal folk alla techno. In fondo sarà banale dirlo ma esiste solo musica bella o musica brutta. E purtroppo dobbiamo rassegnarci, tendenzialmente ad ascoltare musica bella è una minoranza di persone (stesso discorso lo si potrebbe fare per film e libri, più o meno) perché in fondo bisogna anche impegnarsi per apprezzare le cose belle e mica tutti hanno voglia di impegnarsi ad ascoltare musica. Questo per dirvi che sì, forse non tutti conosceranno i gruppi di cui si parlerà in questa rubrica, ma fidatevi di me, sarò ultraselettivo e vi risparmierò quelli troppo di nicchia. Promesso. Cercherò di consigliarvi alcuni concerti, raccontarvene altri, ricordarvi dell’esistenza di dischi che magari hanno fatto la storia della musica e di altri appena usciti che, chissà, potrebbero anche farla. Ecco, quest’ultimo non sarà il caso del fresco fresco nuovo album degli Animal Collective, collettivo (appunto) un po’ schizoide che rappresenta molto bene le commistioni e le pulsazioni musicali degli anni Zero, tanto che li considero (e non credo di essere il solo) uno dei gruppi se non il gruppo più importante tra quelli nati (a far fede è l’anno del debutto discografico) dal 2000 in avanti. Forse insieme a Liars e – almeno per quanto sono riusciti a ottenere anche in termini di popolarità – National, tanto per citare i primi due nomi che mi vengono in mente in campo – più o meno – rock. Loro, gli Animal Collective, sono divenuti davvero un simbolo della scena di New York (dopo averli visti nel 2005 al Covo di Bologna non ci avrei scommesso, lo ammetto), in grado di unire il folk primordiale con l’elettronica, la melodia più paracula con la sperimentazione. Il nuovo disco – che si intitola “Centipede Hz” – partiva già con lo svantaggio di essere il successore di “Merriweather Post Pavilion”, anno 2009, roba da top ten del decennio, in cui gli Ac esibivano tutta la loro neppure tanto nascosta vena pop, suonando un po’ come ci si potrebbe immaginare i Beatles nel 2009, con aggeggi elettronici al posto delle chitarre. Il seguito naturalmente non è all’altezza, diciamolo subito, così pieno di orpelli buttati là con un po’ troppa disinvoltura, anche se sotto sotto, una volta assimilati i coretti, gli effetti e l’elettronica in eccesso, le canzoni vengono fuori. A non farcela ad emergere neppure dopo ripetuti ascolti, invece, è un altro disco uscito in queste settimane molto atteso da tutti noi (intendo noi che aspettiamo dei dischi), quello degli islandesi Sigur Ros, che per me restano un bel mistero. Riescono infatti a essere un gruppo snob (non potrebbe essere altrimenti visto che il loro standard sono canzoni di 9 minuti al rallentatore cantate in una lingua incomprensibile e da una voce lagnosa di un uomo che potrebbe benissimo essere una donna) che gli snob però già snobbano, perché piacciono pure ai ragazzini (orrore!) e a chi non è che sia poi tutto ‘sto superesperto di musica alternativa. Il fatto è che con loro entra in gioco il trasporto emotivo. Ed è un casino. Tanto che ricordo il loro concerto di Ferrara (2006) come uno dei più belli visti in vita mia (addirittura, sì) e direi che non ci sono dubbi nel definire capolavori i primi due album (“Ágætis Byrjun” e “()”, scritto proprio così). Mini-suite tra musica da camera e piglio in fondo in fondo rock, eteree e avvolgenti. Una figata. Ma questo nuovo “Valtari” è un netto passo falso, un disco senza guizzi, che ricalca solo il loro stile, quasi a dare un contentino ai fan che si erano un po’ rotti di aspettare. Non so mica se ce la faranno a riprendersi tanto facilmente. Anche perché la formula è quella e diventare una caricatura vivente di sé stessi è un attimo. (luca@ravennaedintorni.it)
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